A che punto siamo con l’inclusione nella game industry? Secondo quanto scrive Jeffrey Rousseau i progressi ci sono, benché lenti. La rappresentazione delle minoranze diventa al più un “cartellino da timbrare”, apparendo forzata e quindi fastidiosa. La soluzione? Inserire le minoranze prima, dentro ai gruppi di progettazione, attraverso sedute di narrazione, disegno, esplorazione delle proprie esperienze di gioco. Queste descrizioni faranno modo che l’inserimento delle unicità nel plot del gioco sia naturale, perché costruita sul dialogo tra le varie parti sociali. Questo metodo fenomenologico deve portare i soggetti a condividere tra loro le prospettive uniche sulla realtà, per arricchire il prodotto con quei racconti tradotti in pratica.
“Vivere o Scrivere”
È come se la realtà abbondasse di significati e ognuno svelasse parziali scorci di questo infinito tessuto di Essere. Il risultato di questa metodologia è che il game design risulterà effettivamente arricchito dei desideri e delle esperienze delle parti coinvolte, superando l’approccio fino ad ora spesso adottato di tokenism, sempre fastidioso perché innegabilmente forzoso. Le minoranze devono essere incluse nei settori della tecnologia, non solo nella rappresentazione finale. Ne va di quest’ultima, ma anche di ognuno di noi in quanto minoranza.
Per ogni settore tecnologico, dalla robotica all’Intelligenza Artificiale, dal videogame al libro, ritengo che servirsi dello strumento narrativo come metodo per supportare un design davvero centrato sull’essere umano sia effettivamente un valore aggiunto, per gli strumenti e per i soggetti stessi. Credo fortemente che ogni agente tragga vantaggio da una previa riflessione sul sé, sui rapporti con la tecnologia e con l’ambiente in senso lato.
Raccontare, rappresentare, fermare il flusso della vita attraverso ogni forma rappresentativa non è un modo per riprodurre quella vita, che anzi, viene momentaneamente sospesa, perduta: è tipico il motto “vivere o scrivere”. Anche Sartre aveva sottolineato l’incompatibilità tra teoria, tra rappresentazione e flusso della vita. Quest’ultima non sarà mai raffigurabile: tutte le volte che si prova a intenderla, è proprio in quell’istante ad assentarsi. Tuttavia, arte e filosofia devono avere qualche funzione, altrimenti non sarebbero comparse. La rappresentazione ha una funzione morale, regolativa: migliora le nostre pratiche, la vita appena questa verrà ripresa dopo la sospensione artistica e filosofica.
La filosofia è contraria al vivere, sospendendo attraverso dubbi iperbolici l’agire pratico. Essa porta alle conseguenze estreme toccate dell’asino di Buridano, che, bloccato nel aut-aut di scegliere uno o l’altro secchio colmo di cibo, si è infine lasciato morire di fame. Eppure, se l’arte, se la riflessione metafisica ed escatologica sono state le prime attività umane e non sono mai tramontate, deve esserci un motivo funzionale alla vita stessa. E il motivo secondo me è il seguente: le rappresentazioni staticizzano il flusso, non sono certo coscienza di accesso, la quale è sempre attivo coinvolgimento del soggetto nel suo ambiente, ma consentono di migliorare quei rapporti che staticizzano per un istante, rendendo più efficace l’adattamento.
Ci conosciamo solo quando ci pensiamo come un Tu guardato da un Io. Quando ci sdoppiamo in uno specchio, in una simulazione, in una metafora, in un dipinto, ricalibrano le abitudini con cui ci siamo fino a quel momento organizzati a rispondere all’ambiente.
La coscienza fenomenica non è mai Io. Quest’ultimo esiste solo dopo che ci rappresentiamo in quanto Altri e ci osserviamo cogliendoci come Soggetto. Questo rapporto duale Soggetto e Oggetto, Io e Tu esiste solo su questo livello, non nell’agire quotidiano, dove il Tu e l’Io sono coincidenti, tra l’altro come dimostrano i neuroni Specchio. Il Tu fonda l’Io, un po’ come diceva Levinas a proposito del Volto. Mi spingo oltre sostenendo che ogni interpretazione, ogni rappresentazione è un Tu ed è lì che risiede la Coscienza di Sè.
Ormai le strutture dell’organizzazione dell’individuo non sono più spontanee, ma sono il frutto di secoli di “cultura”, cioè delle riorganizzazioni causate dalle sospensioni: miti, grammatiche, design, rappresentazioni. Anche se ricalibrate dalle rappresentazioni, esse non sono mai rappresentabili direttamente: noi agiamo in esse secondo uno spazio, un tempo, una finalità sociale o biologica, coinvolgono il nostro apparato sensomotorio per un qualche potenziale piacere, non è possibile mimarle, comprenderle, descriverle. Per scoprire qualcosa di queste attività di base ricorriamo all’arte e alle varie sospensioni dell’agire. “La coreografia [e la filosofia] rende manifesto qualcosa di noi stessi che è nascosto alla vista perché è l’attività spontanea che struttura la nostra attività dove siamo coinvolti” (Alva Noë, Strange Tool).
La tecnologia stessa, se ragionata, offre informazioni sulla struttura del corpo che se ne serve e dei suoi fini. Il suo design può diventare un suggerimento per la filosofia, per l’arte, per le scienze quando lo si toglie dal suo abituale ruolo complementare alla Vita, per rivelare qualcosa degli organismi che se ne servono. La tecnologia, infatti, è cambiata nel tempo anche grazie ai racconti. Basti anche pensare a quanto l’innovazione sia stata e sia tuttora dipendente dal settore Sci-Fi. In realtà anche anche noi cambiamo in relazione a quelle riflessioni, perché ciò che mettiamo per iscritto sono i nostri desideri, le credenze, la nostra fisionomia, quello che facciamo e quello che vorremmo dilatare del nostro rapporto con il mondo attraverso gli strumenti. Ecco, dunque perché adottare il metodo delle narrazioni personali nel design tecnologico! Ecco perché coinvolgere più attori possibile, soprattutto quelli che dovranno utilizzare quella tecnologia!
COSA CI INSEGNA ALOY
Rejess Marshall, responsabile della diversità e dell’inclusione presso Iron Galaxy, dice che “nell’ambito dello sviluppo di giochi, le aziende stanno assumendo più professionisti DEI (Diversity – Equality – Inclusion) per aiutare a guidare questi sforzi e sono stati compiuti maggiori sforzi per mostrare una rappresentazione diversificata nei videogame.”
In realtà c’è ancora da lavorare proprio sulla personalità degli utenti. Il pubblico deve cambiare quello che si aspetta di vedere in un videogame. A tal riguardo ha destato molto scalpore la “barba” di Aloy, personaggio femminile di Horizon Forbidden West per ps5. Memi, commenti, articoli per una caratteristica che in realtà dovrebbe essere data per scontata quanto il fatto che abbia due occhi. Tale storia è diventata tanto rilevante da portare Vanity Fair a inserire Aloy, un personaggio dei videogame, in copertina. È il segno che i videogiochi siano ormai una rappresentazione estremamente influente nella cultura di tutto il mondo, non solo una nicchia ristretta. Questo significa che agire nel settore del game design ha una valenza sociale molto urgente.

Man mano che la simulazione diventa più fedele, che la potenza dell’arte 3D aumenta, ci si trova ad avere a che fare con i nostri pregiudizi, le abitudini a pensare, ad aspettarsi certe scelte tecniche: le donne non hanno la barba! In realtà non si tratta di peluria maschile, bensì è un viso coperto da vello che tutte quante abbiamo. Una particolarità statisticamente maggioritaria. Ma la natura cozza con l’idea che ci siamo fatti di essa: o si vive o si pensa alla vita, a noi, all’ambiente. Per questo, quando ci troviamo ad agire su una rappresentazione diversa dalle precedenti, ci si para di fronte l’allarme di doverla ripensare. Gli artisti hanno un compito molto delicato: modellano le aspettative del pubblico sulla realtà. Non si può riprodurre tutto: bisogna sempre fare una scelta. Siccome ogni decisione, ogni taglio di elementi narrati, porta con sé azioni e conseguenze pragmatiche, il compito dell’arte, della filosofia, del design tecnologico è in sé morale, pedagogico.
Innanzitutto, la storia di Aloy ci consente di negare il cognitivismo. Noi per agire non abbiamo bisogno di rappresentarci il mondo esterno; le rappresentazioni sono pratiche secondarie che vanno a fornire ai soggetti aspettative e abitudini. Quando ci relazioniamo con una scelta di significati, operata da un videogame come da una qualunque altra forma d’arte, diventiamo ciechi sulla semantica non inclusa nella rappresentazione. Infatti, se vedessimo una realtà rappresentata nella nostra mente, già ricca di tutti i significati presenti nel mondo, un doppio mentale, una simulazione già più fedele della realtà, quella offerta dai giochi di ultima generazione non ci stupirebbe, saremmo già stati abituati a vedere il vello di Aloy senza aprire alcuna polemica.
Nell’agire quotidiano, agiamo selezionando solo alcuni aspetti funzionali a quell’azione, a seconda di quel che dobbiamo fare. Un pittore iperrealista sarà abituato ad avere una rappresentazione della realtà maggiormente particolareggiata su certi dettagli, perché il suo obiettivo è riprodurre su tela quanto percepisce, nel dettaglio. Infatti, ognuno ha una semantica differente riguardo alle cose presenti nel mondo: il significato della parola “Essere” ha tinte diverse, a seconda che a intenderla sia uno studente di un professionale o di un liceo dove si fa filosofia.
Nella pratica non ci domandiamo: partecipiamo
In una simulazione siamo portati a notare particolari che nella realtà ignoriamo perché diamo per scontato che il mondo esterno sia giusto per forza. Nella pratica non ci domandiamo, partecipiamo. Se osserviamo i particolari, si tratta sempre di una simulazione e quindi di una scelta di cosa includere e cosa scartare. Quella selezione dipende dalla catena culturale precedente: non osserviamo neutralmente, l’osservazione è sempre carica di teoria. A prova di ciò se dobbiamo valutare tra varie facce quale è reale e quale è generata dall’IA, siamo portati a credere che le rappresentazioni del machine learning siano vere. Il motivo? Nella realtà agiamo, nella rappresentazione ci facciamo un’idea di come sia il viso, e quindi se il compito è quello di tenere conto delle singole caratteristiche, un compito filosofico, ci parrà più realistica la simulazione, la quale nasce già imbevuta di scopo filosofico e delle nostre aspettative di come debba essere la realtà. Tutto ciò che è razionale è reale e viceversa significa che la razionalità, la coscienza, crea quello che definiamo reale, quello che ci aspettiamo lo sia, mentre la Vita dinamica non riguarda né rappresentazioni, né sospensioni, ma solo partecipazione.
Un’asimmetria di un viso, una prospettiva strana non balzano agli occhi se si sa guardano il mondo o una foto. Nell’agire sono dati per scontati perché è la realtà. Le relazioni pratiche con essa hanno altre urgenze: il dubbio emerge solo in determinati contesti, nel fare filosofico. Nel videogioco o su un disegno eventuali dettagli emergono alla vista perché si sa che sono scelti da un creatore. Ecco il senso del videogame e dell’arte: ci consentono di porre l’attenzione su aspetti che l’agire reale ci fa dare per scontati, come la peluria sulla gota di una femmina. Uno straniero o un parlante inesperto (bimbi) notano i “bug” della lingua meglio dei parlanti abituali, che danno per scontato eventuali contraddizioni grammaticali, agite per abitudine. Il poeta le nota. Il filosofo le nota: ecco perché Socrate interrogando tutti gli “esperti” si accorse che questi non sapevano spiegargli le regole adottate, erano diventate abitudine ad agire, coazione a ripetere e non se ne curavano.
Dialogo e inclusione by design
La mia domanda allora è la seguente: come fare a cambiare le aspettative moralmente sbagliate degli utenti, per far sì che non si abituino ai loro pregiudizi? Riprodurre più fedelmente la realtà può farci notare subito le nostre calcificazioni semantiche, ma tanto il “più fedelmente” resta un asintoto: vita e ambiente sfuggono. Inoltre ben presto ci abitueremmo di nuovo alla rappresentazione migliore, giocando senza notare più il fatto che una donna abbia della peluria. Passeremmo presto ad altri pregiudizi, proprio perché ci sono infiniti significati e non si potrà mai replicare tutto quello che c’è nella realtà. Anche l’artista ignora, l’essere si svela e si cela sempre. Anche il poeta, nonostante sia meno sensibile ai “subliminali metafisici”, non è immune alla cultura.
Il modo è far sì che si sospenda più spesso il flusso della vita e che ci si confronti con altre prospettive, con altre selezioni di umwelt dall’ambiente in comune, per imparare a vedere ogni volta diversi particolari che fino ad ora avevamo ignorato. Dobbiamo volere abbandonare la routine, anche se surfare sul continuo disadattamento significa vivere nella crisi.
Dialogo e inclusione della diversità by design, significa che l’unico modo è riprendere la lezione Socratica di ricerca incessante, perché la “vecchia cavalla” non si addormenti mai su quello che pensa sia essere il vero e il falso.