CONCORSO “CALL TO ACTION PER LA SOSTENIBILITÀ 2022”
Evento di premiazione il 27 Maggio 2022 dalle 10:00 

TECNOLOGIA, UMANESIMO E CULTURA

La rivista dell’Università Cattolica di Milano, Vita e pensiero, ha ripreso dalla francese Le Point-culture un intervento di Maurizio Bettini, classicista, antropologo e scrittore in occasione della recente Journée européenne des langues et culture de l’Antiquité.

Il  tema, attualissimo, era quello del cancel culture, del rifiuto cioè di studiare una lingua e una cultura del passato se in esse siano presenti atteggiamenti e temi in contrasto con  valori che si ritengono attualmente importanti.

Dopo aver mostrato come anche chi rifiuta lo studio dell’antichità classica si serva di termini e parametri che proprio da questa antichità classica derivano, lo studioso esamina la straordinaria attualità per il dibattito contemporaneo di due grandi miti di fondazione: quello di Roma e quello di Atene.

Vi proponiamo, in traduzione, l’ ultima parte dell’intervento.

Secondo il racconto tradizionale della fondazione di Roma, Romolo cominciò con il raccogliere nel suo asylum gente d’ogni dove, senza distinzione tra liberi e schiavi; dopo di ciò il fondatore fece scavare una fossa circolare ove furono poste le primizie di tutto ciò il cui uso era legittimato dalla legge o reso necessario dalla natura. È Plutarco che lo dice. Alla fine, ciascuno gettò nella fossa un pugno della terra che aveva portato con sé dal paese di provenienza, e infine tutto fu mescolato insieme. E chiamarono questa fossa mundus, “il mondo”.

Questa fossa scavata da Romolo è carica di significato. Vi si gettano sia prodotti della cultura, sia prodotti della natura, per segnare la creazione di una vita nuova, l’emergere di una nuova civiltà. Inoltre – ed è per noi il momento più significativo di tutto l’episodio – vengono gettate nella fossa zolle di terra che vengono dai differenti luoghi d’origine di coloro che si erano riuniti intorno a Romolo.

Come interpretare questo singolare passaggio del mito? Esso trasmette immediatamente un fortissimo messaggio simbolico. Creare la propria terra, fondarla è quasi un atto di natura cosmologica – Romolo in effetti crea un mundus, “un mondo”-, un atto che va molto al di là degli abituali riti di fondazione. Il gesto di mescolare queste zolle di terra portate di lontano rispecchia il mescolarsi degli uomini venuti da tutti i luoghi diversi che Romolo riunisce nell’asylum al momento di fondare la nuova città: accogliendo la terra che viene da altri territori, il suolo di Roma diviene assai concretamente “terra d’asylum”.

Nella rappresentazione mitica, il suolo  della città si configura contemporaneamente come uno e molteplice: uno, perché le zolle, inizialmente distinte, sono poi mescolate; molteplice perché all’origine ci sono tanti “suoli” diversi quante sono le zolle di terra. Il messaggio politico di questo mito è fortissimo, mette in evidenza una delle caratteristiche principali della cultura romana: l’apertura. La stessa disposizione che permette non solo agli stranieri, ma anche agli schiavi di diventare cittadini romani, sottoponendo di  conseguenza  la comunità romana a un continuo “rimpasto”. Questa inclinazione fondamentale all’apertura, che costituisce la spina dorsale della cultura romana attraverso i secoli, trova la sua espressione narrativa in un racconto fondativo che mescola da un lato uomini, dall’altro zolle di terra, in un parallelismo perfetto.

Ed ecco ora il mito greco che possiamo paragonare a quello romano che ho appena raccontato.

Si tratta di un altro mito di fondazione, che parla anch’esso di terra, di origine e di popoli, ma che trasmette un messaggio del tutto opposto al mito dell’asylum e delle zolle di terra: si tratta dell’autoctonia ateniese. Questo mito pretendeva che gli Ateniesi fossero usciti “dalla terra medesima” sulla quale vivevano – è il senso letterale dei termini “autoctonia”,  “autoctono”: essi vogliono così dire che sono “nati” dalla terra Attica, che sono stati i primi abitanti di questo  suolo, e dunque i soli degni di risiedervi.

Tuttavia, ad Atene, la tendenza all’esclusione non veniva solo dal mito, era presente anche nel diritto. In effetti non si poteva, come a Roma, diventare cittadini: lo si era. Soltanto i figli di genitori entrambi ateniesi potevano godere di questo privilegio, mentre tutti gli altri – stranieri, meteci e schiavi – non avevano alcuna possibilità di aspirarvi.

Il modello dell’autoctonia veicola dunque l’immagine di una cultura che, al contrario della visione romana, pone la sua identità unicamente in se stessa: mentre la cultura romana è “eccentrica”, fondando la sua identità sugli uomini venuti da “fuori” e sul loro mescolarsi, la cultura ateniese si vuole “autocentrica”, secondo quel che si vede in numerosi movimenti identitari odierni. Il contrasto tra i due miti, il romano e il greco, non potrebbe essere più esplicito: ad Atene è la terra che produce gli uomini, a Roma  sono gli uomini che producono la terra.

In conclusione il mito della fondazione di Roma – mescolarsi d’uomini, mescolarsi di terre – non fa che restituire realtà concreta alla rappresentazione simbolica e durevole che i Romani han voluto dare di loro stessi: il mescolarsi, la molteplicità, il movimento. In questo mito d’origine, i Romani avevano insomma lasciato spazio non soltanto all’alterità, alla diversità, ma financo alla possibilità di essere insieme sé stessi e altri. La cultura romana non esita a definirsi come un passaggio,  a collocare la sua identità ugualmente al di fuori di sé.

L’identità dei Romani, se ne hanno una, è di natura “eccentrica”: per questo motivo la loro civiltà può ancora offrire un valido modello per un’ Europa nella quale  sempre di più è necessario essere insieme sé stessi e altri, cittadini di un paese e contemporaneamente cittadini di una comunità di paesi: un’ Europa che, al contrario, si ostina talvolta a trovarsi spezzettandosi in una pluralità di (pretese) nazioni sovrane, centrate su sé stesse, seguendo così la via ateniese dell’autoctonia e della chiusura.

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