Se un tempo il computer era usato dagli psicologi cognitivisti e dai neuroscienziati come un modello, una metafora del cervello umano, ora, invece, ne è diventato un’estensione. Se per un verso ciò significa che si ampliano molti nostri processi, integrando quelli della macchina ai nostri, per l’altro, purtroppo, succede che, delegando alla tecnologia le nostre capacità, progressivamente ne perdiamo l’uso. È ciò che è capitato alla memoria, la quale diventa più ampia mano a mano che impariamo, diversamente da quel che suggerisce il senso comune.
Apprendendo, creiamo nuovi nodi e nuove connessioni tra i dati vecchi e recenti, strutturando, in questo modo, un vero “albero della conoscenza”. Viceversa, se non esercitiamo questa capacità, gradualmente indeboliamo il meccanismo, come un arto tenuto immobile per troppo tempo. Oggi sono le RAM ad essere sempre più capienti, capaci di contenere le nostre esperienze in modo più esteso, ma occupando spazi più contenuti, tascabili, e anche le velocità di connessione sono maggiori, come un record costantemente superato ad ogni Olimpiade, dandoci l’illusione di essere noi più rapidi nell’esplorazione delle reti semantiche, mentre, in realtà, stiamo abbandonando molte abilità cognitive, quelle che all’interno dei Test del Q.I. erano misurate come un indice di intelligenza.
Comunicazione
Il passaggio dall’oralità alla scrittura, certo, aveva già sgravato di molto peso la memoria umana. Inoltre, questo nuovo strumento aveva permesso il superamento dei limiti della comunicazione faccia-a-faccia, vincolata all’attualità e alla presenza (comunicazione sincrona), rendendo possibile un dialogo continuo con l’autore, anche molti secoli dopo la sua morte. Platone considerò questa forma di comunicazione un “male minore”, rendendosi conto dell’importanza della testimonianza, del dialogo con le generazioni future.
Infatti, se non potessimo tramandarci la cultura e dovessimo sempre ricominciare da capo, saremmo ancora a disegnare nelle grotte. In ogni caso, per il filosofo era sempre preferibile il dialogo diretto, perché il non sincronismo della scrittura lascia eccessivo spazio all’incomprensione: il lettore può non essere preparato, magari vive in un tempo troppo distante dalla cultura dell’autore per comprenderne l’ideologia sottostante, poi c’è il problema di “Babele” e della divisione linguistica, che, rendendoci manchevoli di molti concetti, rende impossibile una traduzione radicale, come dimostrò Willard Van Orman Quine. Tutto questo per dire che l’interprete può facilmente sbagliare, e il testo, non avendo coscienza, non saprebbe farsi le proprie ragioni, correggendo la cattiva interpretazione.
Oggi, a tal riguardo, benché si possa essere sempre presenti per correggere incomprensioni nei discorsi sincroni, ci rendiamo conto che ciò non basta. Il contenuto è manchevole rispetto al tono e agli indizi non verbali. L’interpretazione abbisogna di indizi che prescindono dalla stringa linguistica e quindi la mente non è confinata dentro le sue mura di elaboratore di simboli. La cognizione è embedded, situata, embodied, in un tutt’uno con il corpo, però è anche enactive, nel senso che ogni soggetto risponde, agisce in modo dissimile nell’ambiente.
Nonostante emoji, vocali, video cerchino di compensare la distanza introducendo elementi affettivi, ogni soggetto coglie dal design del web opportunità diverse, agendo in esso in maniera non sovrapponibile. Online, ogni giorno ci ritroviamo ad avere a che fare con gruppi eterogenei, distanti nel tempo, nello spazio e dagli interessi differenti dai nostri e il conflitto è perciò inevitabile: il mondo è differente ed è molto complesso cercare di spiegare il nostro punto di vista ad altri, perché interpretino quello che interpretiamo. È una situazione nuova, di “post-verità”, questo perché fino ad ora il gruppo con cui si aveva a che fare era un insieme di individui vicino culturalmente, che condivideva in modo trasparente una stessa idea di verità.
Scrittura a mano
Un ulteriore cambiamento che sta avvenendo a causa dei nuovi media è la perdita della scrittura a mano e in particolare del corsivo, già eliminato ad esempio in Finlandia. Si tendono a insegnare ai bambini, in successione, stampatello, stampatello minuscolo e, infine, il corsivo, visto ormai sia come un limite, perché crea difficoltà a chi risulta affetto da un disturbo dell’apprendimento, e sia come un’inutilità, una “scrittura morta”, dato che ormai si scrive solo mediante una tastiera QWERTY. In realtà il corsivo ha molti pregi: è più semplice per la mano di un bambino, con le sue forme ondulate, ed essendo eseguibile solo tramite un’integrazione matura di più abilità senso-motorie, visive, spaziali, fonologiche, permette una diagnosi precoce di qualsiasi disturbo nel piccolo, quindi più che un limite per i bambini affetti da DDA, si tratta della loro salvezza. L’intervento precoce, per qualsiasi problema, aumenta di molto le possibilità dell’efficacia del trattamento. È, perfino, un tipo di scrittura adatto ai nostri tempi così rapidi: “corsivo” deriva dal latino currere, ovvero correre, quindi è un metodo studiato proprio per andare più veloci.
Federico Bianchi di Castelbianco, addirittura, indica la perdita della scrittura a mano come causa dell’aumento dei problemi cognitivi nei bambini. Scrivere in corsivo, dice, è tradurre il pensiero in parole, mentre scrivere con lo stampatello minuscolo vuol dire scrivere in lettere separate. Il corsivo, infatti, a differenza dello script, si basa sul non staccare la penna dal foglio. Quindi quei bambini che sono abituati a legare le lettere in parole, sono anche abituati anche a legare il pensiero, ed è per questo che oggi, perdendo la scrittura corsiva, si è meno capaci di legare le idee tra loro. I ragionamenti si banalizzano e i testi si riducono all’osso, ma non per una inconcinnitas alla Seneca, o una “potatura del concetto poetico” tipico della poesia ermetica. Si tratta di una scelta inevitabile, dettata dall’incapacità di ragionare in modo complesso. Ciò, a mio avviso, cela un rischio ulteriore, perché se non si è capaci più di seguire un proprio ragionamento, ancor meno si è in grado di smascherare le fallacie altrui, e siccome i ragionamenti sbagliati non sempre sono in buona fede, succede che diventiamo sempre più controllabili dalle aziende e dalla politica, i cui discorsi sfruttano proprio ragionamenti apparentemente giusti.
Le neuroscienze si sono spesso occupate di questo fenomeno, cercando di dimostrare il motivo per cui la penna ci rendeva più intelligenti. Una ricerca dell’Università dell’Indiana della psicologa Karin Hermann James ha mostrato come i bambini che scrivono a mano abbiano un’attività dei neuroni più intensa, sono attivati più processi cognitivi insieme.
Uno studio dell’Università di Washington, in particolare, ha visto che si attivano le zone del pensiero, del linguaggio, della memoria, cosa che non succede con la scrittura digitale. Quest’ultima, però, attraverso il “correttore automatico”, aveva una reale portata formativa. Come una “maestrina” sottolineava di rosso le parole che riteneva essere sbagliate, lasciando a noi l’obbligo di rivederle, e in questo modo si imparavano molti aspetti della nostra lingua che sbagliavamo.
Oggi, in molti sistemi operativi, come iOS, il correttore è diventato “autonomo”, nel senso che la macchina non ci indica più l’errore, ma prende da sé l’iniziativa di cambiare quello che abbiamo appena scritto, generando anche veri e propri strafalcioni (le macchine non contemplano per ora la creatività umana e non posseggono raffinate capacità sintattiche), inoltre, in questo modo, si perde una possibilità educativa fornita dalla macchina e noi, diventando sempre più dipendenti dalle scelte del computer, andiamo in crisi davanti al foglio bianco, dato che la penna non sostituisce le parole, né le anticipa, ma siamo soli con la nostra competenza linguistica.