II.1. Strumenti non neutrali
I mezzi di comunicazione si inseriscono tra gli attori, sostituendo l’esperienza diretta dell’altro con una indiretta, mediata, e poiché non sono oggetti neutrali, essi condizionano inevitabilmente il nostro modo di interpretare la realtà.1 Infatti, secondo il “determinismo metodologico” di Marshall McLuhan e Walter J. Ong, un medium non modifica solo il modo di relazionarsi, ma interviene sulla percezione stessa.2 Inoltre, per Ong, la scrittura, ovvero la prima forma di tecnologia applicata alla parola, si trova in uno stretto legame anche con la società. Furono le merci, sempre più abbondanti, grazie all’agricoltura, che favorirono la nascita sia dello Stato e sia della scrittura: una maggiore disponibilità di cibo permise a qualcuno di non lavorare la terra, diventando capo, sacerdote, artigiano, e richiese la nascita di un modo per tenere i conti delle risorse e degli scambi, per cui si ebbe il primo cuneiforme.3
Si tratta, in definitiva, di capire come noi siamo usati dalle tecnologie e come gli interessi, i bisogni, i significati e i processi di costruzione dell’identità e della società siano cambiati.
I nuovi media stanno introducendo anche una nuova forma di oralità, la quale, però, necessita della preesistenza della scrittura. Nonostante ci si possa rivolgere a un pubblico potenzialmente sterminato (sia esteso, sia risultante dallo sterminio?), la nuova comunicazione risulta privata della spontaneità della voce e del corpo, ma questa era ciò che esprimeva l’intimo dell’individuo, quindi, come può emergere l’identità personale dai nuovi media?4 Infatti i refusi sul web non portano più a galla l’inconscio, non sono lapsus calami, ma sono solo una mancata abilità di digitazione.
II.2. Identità e l’altro
Per “identità” si intende l’insieme delle caratteristiche che permettono a un soggetto di riconoscersi e di essere riconosciuto.
Secondo la psicologia, la psicologia sociale, la psicopedagogia e la pedagogia generale, durante la crescita, si distinguono due processi, uno di individualizzazione e uno di socializzazione. Il primo porta all’identità personale, l’insieme di tutte le caratteristiche che rendono unico un individuo, il secondo conduce a un’identità sociale, l’immagine di sé derivante dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo, unita al valore che gli si dà e all’ethos che viene sviluppato. Opposti, ma interconnessi, il processo di socializzazione ha come risultato un diventare come gli altri, l’individualizzazione, invece, porta ad essere differenti. 5
L’obiettivo dello sviluppo, come sostiene Erik Erikson, è un’identità integra che ha il coraggio della propria diversità,6 non solo rispetto agli altri, ma pure in rapporto a se stessi, perché il soggetto non è statico, ma si progetta continuamente, orientandosi oltre sé, verso nuovi traguardi. Inoltre bisogna anche rendersi diversi dall’umanità, il che vuol dire impegnarsi a non cadere nell’omologazione. 7
Tradizionalmente, però, “diverso” non era “l’io rispetto l’altro”, ma “l’altro da me”. L’alterità, infatti, era definita sempre in seguito all’ipseità, dalla quale dipendeva, era il “non essere” in senso relativo, un essere-diverso-da, l’antitesi della tesi. Ciò significa, tuttavia, negare l’unicità dell’altro e quindi la sua esistenza, perché, seguendo lo slogan di Willard Van Orman Quine, “no entity without identity”.
In realtà l’altro, dice Emmanuel Levinas, possedendo le caratteristiche di autosignificanza, estraneità, autonomia, inviolabilità, è la vera identità originaria. Ha, infatti, un significato autonomo, e non ha bisogno di me per ricevere una definizione. Inoltre non è possibile né anticiparlo, né inglobarlo dentro categorie finite, trascendendo ogni mia possibile comprensione del suo essere.
“Riconosco Dio in te” è il saluto che si rivolgono gli indiani e ha lo stesso significato di quel visage che mi chiede, ora, di essere interpretato altrimenti, ovvero altrimenti dalle categorie ontologiche tradizionali. L’altro mi intima, infatti, di non ucciderlo, racchiudendolo nelle mie rappresentazioni, come fino ad ora ho fatto, rendendolo un semplice alter-ego, un altro-da-me.
L’identità egoistica, che finora si è creduta autonoma, senza bisogno degli altri per essere riconosciuta, fondamento di ogni conoscenza, è un limite alla socialità. Infatti, quella sua sintesi totalizzante, che ingloba sotto il suo sguardo tutto ciò che incontra, annulla le differenze, ovvero le singole le identità personali.
Il percorso di acquisizione di identità viene ora invertito: è il nostro io che dipende dall’altro, dall’appello che lui ci rivolge e a cui siamo tenuti a rispondere in modo unico. L’altro ci giudica, accusa il nostro egoismo connaturato, ma è andando in suo soccorso, andando lontano da noi, verso di lui, che, paradossalmente, ci troviamo. Non potendo sottrarci dal rispondere, questo essere responsabili in modo unico e insostituibile per l’altro ci rende individui, ma in modo ben diverso, è chiaro, dalla vecchia identità egoistica. Ci doniamo gratuitamente, in un sacrificio che accogliamo prima di aver udito la voce che ci chiama, perché altrimenti potrebbe ricomparire l’egoismo, sostituendo la risposta autentica con un mero assistenzialismo egocentrico, una cura inautentica per sfamare ancora il proprio ego. Invece, attraverso l’eccomi fine a se stesso e gratuito, reggiamo davvero l’intero universo sulle spalle: dilatando la nostra responsabilità, concedendoci a tutti prima che ci chiamino, diventiamo substantia, per tutti, non per noi.8
II.3. L’identità nella relazione
La personalità è qualcosa di più di un insieme di tratti distinti, è un tutto che diventa più coerente con l’età e nel quale le caratteristiche interagiscono insieme.9
“Chi sono io?” rappresenta da sempre una sfida per tutti gli esseri umani, Socrate stesso poneva il quesito al centro della sua filosofia. Tuttavia, non si raggiungerà mai un’immagine fissa di sé, se l’essenza dell’uomo è la sua trascendenza. L’idea di un’identità che rimane stabile è ormai superata, si preferisce parlare di un sistema aperto, continuamente influenzato dall’esperienza e dalle valutazioni degli altri. Pertanto non bisognerebbe più trattare l’io e l’altro in senso dualistico, ma, invece, andrebbero inseriti nella logica della relazione.
William James, riprendendo George Herbert Mead, distingue l’Io, il soggetto che conosce, dal Me, l’oggetto della conoscenza. Secondo lui, inoltre, vi sono più tipi di Me: un Me materiale, un Me spirituale, uno sociale.10 Questa è la prova che Narciso non amava se stesso, ma il Me materiale, corporale, infatti, se avesse amato il proprio Ego, non si sarebbe ucciso.11 Hurbert Hermans, invece, teorizza un “Sé dialogante”; si tratta come di uno spazio teatrale, nel quale i Me di James diventano i personaggi sulla scena, coinvolti in un plot per la narrazione del sé. Ognuno ha un suo punto di vista, che esprime con una voce diversa, pertanto il Dialogical Self diventa una polifonia di voci, una musica di canti e controcanti che cambia a ogni esperienza e ad ogni contatto. Nel relazionarci agli altri, i loro Sé vengono, infatti, introiettati all’interno del nostro spazio personale, riconfigurando, in questo modo, l’identità soggettiva fluida. Realtà e Sé, dunque, sono costruiti nelle relazioni, ma occorre una personalità sana perché l’io sappia destreggiarsi fra i vari ruoli.12
Anche Erik Erikson intende l’identità ben formata come un tutto dai contorni fluidi, un mosaico dai tasselli differenziati che funzionano, se aggregati, per l’insieme. Egli, poi, opera una distinzione tra integrità positivamente raggiunta e totalità. Pur riferendosi entrambe a una complessità, per la seconda intende un tutto ma dai confini netti, dove nulla di ciò che sta dentro può stare fuori, in cui regnano, infatti, inclusività ed esclusività assolute.
Per Erikson è nell’adolescenza che si richiede che il passato e il futuro siano sintetizzati in modo positivo, ma, qualora il ragazzo fallisse nell’impresa, finirebbe per provare un senso di confusione, legato all’identità e ai ruoli, e la sua organizzazione assumerebbe una forma totalizzata. Infatti, piuttosto che una parziale integrità, i giovani preferiscono abbracciare un’ideologia totalitaria, oppure scelgono di essere assolutamente nulla, “morti”, o un estremo di un qualunque dualismo. Quando capita un improvviso cambiamento, però, anche l’uomo adulto può perdere la sua integrità, e allora, solo per difesa, per sopravvivenza, si ristrutturerà anche lui in una totalità, la quale, se è temporanea, non è patologica.
È l’Ego che ha il compito di garantire l’integrità, sviluppando, al contempo, opportune strategie di sintesi e di difesa, affinché si evitino o si superino i conflitti. Anche una famiglia integra, capace di offrire adeguate identificazioni, e una società sana possono far evitare la deriva verso una totalità, che si può considerare anche come quel cercare di essere ad ogni costo controcorrente. Infatti, anche secondo Martin Heidegger si tratta sempre di un progetto inautentico: non è reale anticonformismo, ma un impersonale si trasgredisce.13
Riguardo all’omologazione, i media hanno certamente dato notevole impulso alla tendenza adolescenziale di perdersi nell’impersonalità. Il corsivo, come ho analizzato precedentemente, sta venendo progressivamente escluso dai programmi di scuola, e questo alla luce della preminenza che sta assumendo lo script nell’esistenza delle persone. Lo stampatello minuscolo, a differenza del corsivo, non è un rivelatore della personalità unica dell’individuo, pertanto agevola chi, non avendo raggiunto un’integrità, preferisce darsi una totalità uniforme, smarrendosi nel “per lo più” della massa ed esprimendosi, oggi anche a livello pittografico, “nei modi di tutti”14 La massificazione, infatti, porta ad indossare maschere tutte uguali, come fossero state “acquistate all’interno di una produzione in serie, ai grandi magazzini”; siamo indirizzati verso stili di scrittura già preconfigurati, come il Times New Roman, Calibri, da cui trapela un’identità decisa per tutti a priori. Si tratta di un’apparente libertà, caratterizzata da una scelta individuale effettuata su un insieme già dato, dal quale non è possibile sconfinare. Questo concetto fu espresso anche dal cantautore Max Manfredi, anche se nei riguardi del fenomeno mediatico televisivo: “lo zapping sostituisce la libertà di scelta”. In effetti, la massificazione fu stimolata in particolar modo dai media tradizionali, i quali, avendo a disposizione un solo canale per rivolgersi a una moltitudine di persone, hanno veicolato un messaggio che andasse bene a tutti, livellando, di conseguenza, l’audience.
L’omologazione, la dipendenza dai pari e dalla famiglia sono ostacoli alla scelta autentica. Per superare tali freni, Gaetano Mollo insiste sulla necessità di decondizionare i ragazzi, eliminando la patina di idealità da certe professioni e portando i giovani a valutare le proprie potenzialità con un metro non svilente. 15
Durante lo sviluppo, quando i bambini diventano più cognitivamente sofisticati e il Sé si rende più coerente e stabile, emerge anche una capacità valutativa più realistica. Si possono distinguere tre componenti dell’Ego formato: la consapevolezza di sé, ovvero la consapevolezza di essere distinti dagli altri, con un io proprio; il concetto di sé, l’immagine che risponde al conosci te stesso; la stima di sé, ovvero come ci valutiamo. Quest’ultima componente si trova in stretto rapporto con la qualità delle prime relazioni interpersonali, in particolare quella madre-figlio, nella quale il genitore deve trasferire al proprio bambino fiducia in se stesso e nel mondo. Secondo John Bowlby il tipo di rapporto che si ha con la madre diventerà un modello operativo per tutti i successivi rapporti, ma ciò non basta, poiché in seguito le influenze si allargheranno nella scuola, dove l’approvazione dei pari risulterà particolarmente importante.
Le differenze dipendono anche dal contesto in cui si è nati, Charles H. Cooley parla di Sé specchio, un io modellato dall’immagine che gli altri rilevanti ci restituiscono, come fossero appunto specchi. Tuttavia, è bene sottolineare che la costruzione di sé non è un semplice riflesso dell’ambiente: i bambini valutano sempre le opinioni altrui e in modo attivo formulano ipotesi e si paragonano agli altri, in un processo di continue riflessione ed osservazione, da cui non definiscono solo chi sono, ma anche chi vorrebbero essere e chi possono essere. 16
Famiglia e scuola, avendo smarrito le loro identità, hanno perduto di vista anche le loro reciproche e complementari funzioni di condurre i giovani a realizzare il loro “essere persone”.17 Si parla, a tal proposito, di orientamento, intendendo il processo per il quale il soggetto, supportato da un precettore, sia in famiglia e sia nei contesti educativi istituzionalizzati, acquisisce una capacità matura di scelta.18 Bisogna stabilire una continuità coerente di intervento all’interno del ciclo di vita dell’individuo. La famiglia deve fare emergere le caratteristiche di fiducia, autostima e autonomia, ma è alla scuola che spetta, propriamente, il ruolo di stimolare l’auto-progettazione. Tuttavia, perché ciò sia possibile, è necessario che l’alunno abbia solide fondamenta, acquisite nel contesto di origine, ed è per questo motivo che scuola e famiglia vanno considerate in rapporto, in una dialettica positiva, avente come fine condiviso il farsi persona degli educandi. 19
Nel contesto di socialità più vasto della scuola, si ha un confronto più stringente e profondo sia con i pari e sia con le proprie abilità. L’obiettivo è quello di volgere le attitudini latenti in caratteristiche consce di sé, perché il farsi persona implica il raggiungimento della consapevolezza dei propri interessi, delle proprie capacità, degli ideali, il tutto per operare scelte professionali autentiche.20 Queste ultime sono passate da essere un affare familiare, o di casta, o corporativo, per tornare finalmente, sostiene Carlo Lo Gatto, al legittimo proprietario: l’individuo. 21
1 Cfr. A. REGA, Persona umana, tecnologia informatica ed educazione. Creazione di senso e gestione razionale dei processi multimediali, in “Rivista Formazione Lavoro Persona”, numero VIII, anno III (2013).
2 Cfr. G. RIVA, Psicologia dei nuovi media, Il Mulino, Bologna, 2009.
3 V. CAFAGNA, Comunicare nel Web. Verso una nuova ontologia della scrittura? in “Nuova Secondaria Ricerca”, n.7, anno XXXII (marzo 2015), pp. 18-22.
4 Cfr. J. SHOTTER, Becoming other than we were: moments of transformation in dialogic communication, in “rivista QWERTY”, vol.4, n.1, (2009).
5 R. SCHAFFER, Psicologia dello sviluppo. Un’introduzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005, p. 355.
6 Cfr. E. H. ERIKSON , Gioventù e crisi di identità, Armando Editore, Roma, 1995 (1968).
7 Cfr. B.ROSSI, Identità e differenza, La Scuola, Brescia, 1994.
8 F.CAMERA, Sotto il segno di Hermes. Pensare in prospettiva ermeneutica, Il melangolo, Genova, 2011, pp. 116-137.
9 R.SCHAFFER, op. cit., p.356.
10 Cfr. A.M.SUGLIANO, Gnozi seauton: identity artefacts in the (individualistic) social web, in “QWERTY”, vol.4, n. 1(2009).
11 Cfr. E.H.ERIKSON, op.cit.
12 Cfr. A.M.SUGLIANO, op.cit.
13 Cfr. E.H.ERIKSON, op.cit.
14 Cfr E. H. ERIKSON, Gioventù e crisi di identità, cit.
15 O. ROSSI CASSOTTANA, La pedagogia dell’orientamento tra ricerca di significati e attenzione psiopedagogica alle specificità delle fasi evolutive: verso un progetto di autorientamento, in “Rivista Pedagogia Oggi”, 1/2015, pp. 364-365.
16 R. SCHAFFER, op.cit., pp.367-369.
17 Cfr O. ROSSI CASSOTTANA, Farsi ed essere persona meta imprescindibile della pedagogia del XXI secolo. Riflessioni e tracciati per una progettualità condivisa famiglie-scuola, in “Il Nodo. Per una pedagogia della persona, XVIII, n. 44, Nuova serie, Dicembre 2014.
18 O. ROSSI CASSOTTANA, La pedagogia dell’orientamento tra ricerca di significati e attenzione psicopedagogica alle specificità delle fasi evolutive: verso un progetto autorientativo, cit., pp.356-357.
19 Ibidem, pp. 369-370.
20 Ibidem, p. 370.
21 C. LO GATTO, Orientamento scolastico e professionale, Le Monnier, Firenze, 1974, pp. 3-4.