La fiducia nelle tecnologie, nei robot è un tema molto importante, che necessita di essere indagato a fondo, scavando nella parola e nella cultura.
“Concedere fiducia” mette i piedi nella società di appartenenza, nella scommessa e nelle aspettative, nelle credenze che nutriamo verso gli oggetti. Spesso la tipica paura verso i robot dipende da tradizioni differenti, dai miti con cui ci siamo narrati nel tempo: quella Occidentale si aspetta sempre la greca nemesis per aver tentato di sfidare diktat divini. L’Oriente è più permissivo: l’unica cosa negativa è che l’anima delle cose sia ostile, ma per ragioni spesso dipendenti da noi, pertanto se può accadere che gli oggetti sanno spaventare perfino di più, è anche vero che si possono ammorbidire le volontà che contengono oggetti e robot. Se riflettono i desideri degli utilizzatori e dei creatori benevolenti, l’anima del robot si farà ugualmente mansueta e dunque ci si potrà affidare.
È una scommessa, la fiducia, ma non cieca, si cercano prove di questa affidabilità: concedere fiducia è il dono per un dono ricevuto, un servizio reso dall’oggetto (o dal soggetto) che procura “comfort”. Non è un caso, in effetti, che “trust” derivi dall’antico norvegese “traust” che oltre a fiducia, significa ‘aiuto’, ‘protezione’ e che sia vicino al tedesco troost, comfort. Non solo, la fiducia oltre ad essere la risposta per un aiuto ricevuto, un sollazzo, una sensazione di protezione, è la conseguenza a un’esperienza di consolazione, un mettere giù le armi del controllo perché alleviati dalla preoccupazione. Allora la fiducia è l’opposto del monitoraggio, anche se entrambe si collocano sullo stesso segmento, da buoni estremi. Come si passa dalla preoccupazione alla fiducia? Un modo può essere la condivisione del “bello”.
Il bello non è un canone oggettivo, cioè dell’oggetto, ma è la misura di un gruppo. È un giudizio su cui si creano e solidificano le comunità.
Quante volte, a scuola, io stessa mi trovo a utilizzare, volontariamente o meno, questo strumento per fissare le mie relazioni con gli alunni e fare in modo che, grazie alla fiducia che si innesca dal reciproco riconoscersi (non mi fa paura chi è simile a me, chi concorda su ciò che mi piace), la relazione educativa migliori? Ci si confronta su serie tv, film, giudizi su arti figurative, videogame, libri, poesia, musica, insomma l’arte.
L’arte è un collante molto forte, è veicolo di empatia e di reciproco riconoscimento: ci si pone alla pari ed è solo su uno stesso livello che poi si può costruire altro, i muratori lo sanno bene. Allora, se ci riconosciamo in un robot che danza con noi, come l’esperimento con i robot Forest che danzano con espressività con umani, e se, soprattutto, anche quel robot sembra riconoscersi nel nostro vissuto esperienziale, anche la relazione che ne deriva supera l’oggettualità reciproca, perché il problema è proprio quello per cui di fronte a un robot anche noi siamo oggetti, ci sentiamo tali, input e output, ed è questo che ci turba (l’oggetto è sostituibile, non ha una dignità inviolabile). Il fine di una relazione connotata affettivamente, anche quella HR, deve trasformare i due poli in soggetti parte di un solo gruppo estetico.