CONCORSO “CALL TO ACTION PER LA SOSTENIBILITÀ 2022”
Evento di premiazione il 27 Maggio 2022 dalle 10:00 

CITTÀ E COMUNITÀ SOSTENIBILI

Scuola, università, educazione non formale e informale nel mondo in tempesta dell’Antropocene, un mondo vecchio e malato che non muore, un mondo nuovo che non riesce a nascere. Volere, sapere e potere essere perno del cambiamento, questa la sfida da raccogliere. Ma per farlo occorrono più lavoro comune e più punti di contatto e contaminazione reciproca: è un appello che lanciamo e un impegno a rafforzare il nostro contributo in tal senso.

Nell’editoriale del numero di marzo di “.eco” abbiamo parlato di una “educazione in transizione”, tra un “vecchio” e un nuovo mondo. Di transizioni ne abbiamo viste sempre più spesso ed è logico che sia così: tutti i processi dalla Rivoluzione industriale in poi hanno registrato una progressiva accelerazione esponenziale.

Qualche transizione è stata più rapida e violenta i certi momenti (si pensi alla Rivoluzione francese o a quella dell’Ottobre o ai profondi traumi e cambiamenti lasciati nel secolo scorso dalle due guerre mondiali), ma indubbiamente tra il 781 (incoronazione di Luigi I detto il Pio) e gli eventi compresi tra presa della Bastiglia e Restaurazione (nella poesia “Les belles familles”, arrivato a Luigi XVIII, Jacques Prévert commenta «Ma che gente è mai questa che non ce l’ha fatta a contare fino a venti?») il tempo corre più piano che dopo il 1784 (quando Watt perfeziona la macchina a vapore rendendone definitivo l’uso), per poi correre sempre più veloce.

Cambiamenti a ritmo incalzante

Da allora abbiamo avuto a ritmo incalzante la seconda rivoluzione industriale, quella informatica e quella microelettronica, la bomba atomica e gli OGM, le pandemie e le guerre civili planetarie, l’esplosione dell’economia delle piattaforme e l’esplosione delle disuguaglianze, l’accelerazione della Sesta estinzione di massa e – fattore finale di una possibile catastrofe planetaria – la crisi climatica globale.

Insomma, non c’è da stupirsi se diciamo che – non solo in Italia – sistemi e modelli educativi mostrano la corda. La scuola, assediata dai social media, delegittimata dal presentismo a conservare la memoria del passato ma non ancora orientata a educare al futuro e incapace di essere, come la Storia, “magistra vitae”, sembra impotente di fronte alla missione che l’età contemporanea assegnerebbe a lei e a tutti gli ambiti di apprendimento ibrido non formale e informale. Contigue ormai in un continuum che – portato dal nuovo contesto tecnologico, sociale e culturale – potrebbe essere fecondo se messo a sistema e se tutte fossero adeguatamente ripensate, potenziate e finanziate.

Un’educazione emancipatrice in tutte le età e gli ambiti della vita

Un’istruzione emancipatrice, mass media dediti a una funzione pedagogica di massa, intellettuali “impegnati” e luoghi della cultura vivi e ricchi di stimoli, una miriade di attività non formali (nei quartieri, nei parchi, nei musei, ovunque) in città e territori (educativi) rivolti a tutte le età e ambiti della vita: una grande utopia, ma anche ciò che servirebbe per costruire cittadinanza consapevole e attiva, partecipazione democratica, emancipazione, libertà di scelta. O, per dirla tutta, comunità planetaria di destino.

La missione che l’età contemporanea dovrebbe assegnare tutti gli attori dell’educazione formale, non formale e informale è appunto questa: formare ad apprendere (senza sosta: “No limits to learning”, proclamò il Club di Roma dopo aver sancito i “Limits to growth”), aiutare a comprendere, favorire l’essere. Dare mani e gambe alla solidarietà umana, rincantare un mondo triste, mirare alla felicità e al vero benessere.

Obiettivi generali e obiettivi parziali

Come si capirà, si tratta di obiettivi (culturali ed etici) di ampio respiro e di valore universale.

Nella tempesta di transizioni in cui anche le barchette di scuola e università (varate veramente anch’esse con l’Antropocene) e degli attori dell’educazione non formale e informale si trovano a navigare, ci sono alcuni fari (gli accordi di Parigi del 2015, l’Agenda 2030 dell’Onu), alcuni termini che stanno assumendo peso e significato (la transizione ecologica) e programmi (Next generation EU, Green deal). Certo, i fari a volte illuminano a intermittenza o non sempre indicano la direzione giusta, i termini si prestano a “greenwashing”, i programmi si scontrano con i rapporti che ci dicono che se le intenzioni crescono (sulla sostenibilità si fa anche un grande bla bla) le realizzazioni tardano.

Ma tant’è, meglio che niente. Tenendo sempre presente l’orizzonte ampio e guardando lontano, i vari attori dell’educazione, della formazione e dell’informazione devono però anche rivendicare il loro ruolo centrale in questo incerto, troppo lento, contraddittorio trascinarsi del mondo vecchio verso un possibile, più sostenibile e più vivibile mondo nuovo.

La transizione non può fare a meno dell’educazione (in senso pieno)

Chi tra loro ne è consapevole? Chi vuole farlo? Chi, volendo farlo, sa farlo? Chi, volendo e sapendo farlo, può farlo? Volere, sapere e potere sono tre verbi da coniugare insieme. In parte dipende da condizioni esterne (le politiche locali, nazionali ed europee, con il corredo di quadri normativi, linee guida e finanziamenti), ma questo non deve essere un alibi per rassegnazione o piagnistei.

La transizione ecologica (*) non è risolta né assicurata, né è contraddistinta da una visione unanimemente condivisa, ma certo è sospinta dal Green deal o il Next generation EU come dai movimenti giovanili, dalla coscienza di parte dell’opinione pubblica e dall’onda dell’innovazione sociale. Siamo appena ai primi passi di un processo non lineare né breve né univoco, che investe tutti i campi, dalla produzione di energia, a edifici, agricoltura, mobilità, urbanizzazione, natura e biodiversità, consumi e stili di vita.

Non solo resta attuale, ma diventa ancora più centrale, il ruolo di un insieme di conoscenze, competenze, atteggiamenti e comportamenti (ma anche di valori e principi etici) che si costruiscono in contesti ibridi di apprendimento con il concorso di istruzione (scolastica e universitaria), ricerca, educazione non formale e “infosfera”.

Su un filo steso sull’abisso

Non c’è (o non dovrebbe esserci) soluzione di continuità tra innovazione tecnologica e sociale, cultura scientifica e abilità concrete, pratiche sociali e politiche socioambientali, tra sviluppo digitale e bisogno di natura, tra domanda di lavoro e domanda di qualità della vita, tra voglia di sicurezza oggi e cura del futuro.

Una vasta comunità (stimabile complessivamente in Italia in più di un milione di persone – per non parlare dei giovani o di tante componenti della società  civile) di accademici, insegnanti, educatori ambientali, guide naturalistiche, comunicatori ambientali di enti pubblici e soggetti privati, divulgatori scientifici, formatori, giornalisti si trova chiamata a interagire sempre più e a costruire reti che sempre più si trovano a dover condividere temi (quelli della transizione ecologica), linguaggi (quelli della sostenibilità), missioni (fare crescere la cultura dell’ambiente e della sostenibilità nel Paese, assicurare partecipazione consapevole e condivisione al processo e conoscenze e competenze adeguate per farlo con efficacia).

È una educazione (nel senso più pieno e ampio del termine) inevitabilmente ambientale, perché il rapporto umanità-ambiente è il filo sull’abisso su cui l’umanità si trova a camminare, dopo milioni di anni di lenta ominazione, migliaia di anni di conquista del pianeta, centinaia di anni di accelerazione del (presunto) dominio e del (reale) saccheggio, decine di anni di frenetico avvicinamento all’orlo dell’abisso e al punto di non-ritorno.

Una comunità frammentata ma con una grande potenzialità

Questa comunità:

  • È però frammentata in una serie di reti divise per ambiti territoriali (reti locali multiattori, dove diversità e prossimità giocano ruoli contrastanti), tematici (sviluppo sostenibile, clima, pace, giustizia socio-ambientale, lavoro, cooperazione internazionale, diritti,…), istituzionali, formali e non formali (parchi, scuole, università, agenzie di protezione ambientale,…), generazionali (giovani, tutti).

A questa frammentazione corrisponde una frammentazione o scarsità di opportunità di formazione iniziale e continua nel campo dell’ambiente e della sostenibilità. Recenti casi di successo di iniziative di formazione da noi realizzate, ma anche un proliferare di corsi di ogni tipo, livello e valore, dimostrano l’esistenza di una forte domanda in tal senso.

  • Deve fare i conti con la compresenza di sedi e canali di formazione e comunicazione, grandi e piccoli: in presenza, su carta, a distanza in digitale; e con la sfida di ripensarne uso e metodi e integrarli.
  • Possiede in compenso una vastissima mole di strutture fisiche, social media, testate a stampa e online, contenuti testuali, audio e video, dai livelli più professionali delle grandi organizzazioni a quelli più artigianali delle piccole realtà, comunque vivaci, dinamiche e originali, in qualche misura anche più delle grandi, ma a rischio di non visibilità e di episodicità o precarietà. Si tratta insomma di un patrimonio di persone, energie e strumenti di enormi proporzioni di grande potenzialità, che complessivamente raggiunge l’intera popolazione del nostro paese.
  • Deve trovare sinergie ed economie di scala, migliorare la professionalità delle realtà minori, attrezzarsi meglio e tutto questo per potenziare la capacità di interagire con il grande pubblico.
  • La componente giovanile di tale comunità ha prodotto, non solo a livello italiano, nuovi linguaggi e nuove forme di mobilitazione. Soffre però di una situazione di debolezza demografica (i giovani sono pochi) e strutturale (i giovani sono spesso precari o disoccupati, se non addirittura NEET), di aree di reciproca diffidenza giovani-adulti, di un rischio per i giovani di essere visti (con benevolenza o paternalismo) come fenomeno “giovanilistico” e tale in effetti restare, di sistemi educativi caratterizzati da inerzia, vischiosità e persistenza di vecchi paradigmi anti-ecologici, più propensi a inchinarsi alla conservazione e al mercato che attenti a costruire uguaglianza rispettando le differenze e a essere leva di conversione ecologica.

Una scuola e una università finalmente davvero verdi e sostenibili, più dialogo intergenerazionale, più lavoro comune, più strumenti dati in mano ai giovani, più formazione alla partecipazione attiva e all’azione “politica” possono riequilibrare tale minaccia.

Una chiamata al lavoro comune

Si tratta, insomma, di generalizzare dibattito e ricerca sui modelli e metodi formativi e di favorire la nascita o la crescita di “vasi comunicanti”, tra i diversi componenti della comunità e tra la comunità e il grande pubblico dei beneficiari (che può andare da una platea circoscritta, come quella di un territorio o di una specifica categoria di destinatari, a quella vasta di studenti e a quella vastissima dell’intera popolazione di ogni età).

È appunto quanto da sempre fa la nostra organizzazione e il cuore della sua proposta anche per i prossimi anni.

Tale funzione è il supporto a due ruoli giocati da tempo, in alcuni casi da più di trent’anni (almeno dal 1989, anno di nascita di “.eco”):

– dare voce a una comunità di pratica e di ricerca in educazione ambientale;

– dare occasioni e strumenti di formazione e aggregazione (la rete, i congressi, le summer school, i corsi online, gli eventi, ecc.).

Per quanto è nelle nostre forze e capacità, si tratta di razionalizzare, migliorare e integrare gli strumenti esistenti (per renderne l’utilizzo più economico e efficace, nonché più utile per i membri della rete e altri interlocutori, istituzionali e privati profit e non profit), sia di ideare nuove iniziative per coprire campi ora scoperti o coperti in modo insufficiente e/o episodico e entrare con dinamismo in contesti in evoluzione, capitalizzando anche la nostra resistenza e resilienza nel corso del tempo.

Per quanto riguarda il variegato panorama di altre realtà, si tratta di raccogliere l’appello a un più stretto lavoro comune. Noi, come detto, ci siamo.

(*) Il decreto legge del 26 febbraio 2021 ha sancito la nascita del Ministero della Transizione ecologica (Mite), che sostituisce il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare. Contestualmente il decreto ha istituito il Comitato interministeriale per la transizione ecologica (CITE) con il compito di assicurare il coordinamento delle politiche nazionali per la transizione ecologica e la relativa programmazione, composto dal ministro per il Sud e la coesione territoriale, dai ministri della Transizione ecologica, dell`Economia e delle finanze, dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile, della Cultura e delle Politiche agricole, alimentari e forestali.

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