L’Agenda per lo sviluppo sostenibile 2030 non è una semplice sequenza di obiettivi tecnici destinati a garantire una migliore vivibilità alle generazioni future, ma è uno strumento in sinergia con una visione complessa della città, della società e dell’ambiente, capace di farsi carico di quanto ereditato dalla storia con lo scopo di proporre scenari, politiche e soluzioni per un futuro sostenibile. Per quanto riguarda la città questa visione propone i seguenti quesiti:
- la città non è un bene “già a disposizione” dell’uomo, ma un artificio creato dall’uomo sottraendo beni alla natura. Da cui, qual è la natura della città?;
- quali sono i suoi recenti processi evolutivi?;
- infine, qual è la velocità di evoluzione di tali processi e quali effetti generano sulla natura della città ?
La natura dello spazio urbano
I greci avevano posto al centro dell’espressione religiosa dello spazio la figura antinomica e complementare della coppia Hestia/Hermes: Hestia, la dea dello spazio domestico, incarna l’eternità del focolare, che affidato a lei sola è destinato all’estinzione, in quanto non potrà riprodursi, Hermes il messaggero, il nomade, il ladro, il mediatore, la guida che accompagna il viaggiatore nell’al di là, è il dio dello scambio e della mobilità.
Hestia senza Hermes morirebbe di immobilismo, riducendo lo spazio a uno sterile paradigma; il solo Hermes vedrebbe i suoi peripli ed i suoi ruoli multipli dissolversi nell’errare senza scopi.
Questa metafora esprime la natura dello spazio urbano: “lo spazio necessita di un centro, un punto fisso privilegiato, a partire dal quale si possa orientare e definire un sistema di relazioni differenziate qualitativamente; ma, nello stesso tempo, lo spazio si presenta come il luogo del movimento, il che implica una possibilità di transito e di passaggio da un punto all’altro”.
Differenze fondative dello spazio urbano
Come ricorda Massimo Cacciari nella nostra civiltà europea possiamo ricondurre lo spazio urbano a due archetipi: la polis e la civitas.
Nelle polis greche vige il principio “appartengo a quella polis perché li ha sede il mio genos”
Ciascuna città rimane sostanzialmente a se per via del radicamento di spirito e genere, con la conseguenza dell’isolamento di ciascuna polis dall’altra.
Roma si fonda sull’idea di civitas. La città si fonda su persone che erano state bandite dalla loro città (esuli, raminghi, profughi, banditi,…), ed il primo tempio è dedicato al dio Asylum.
Tutti i liberi che abitano l’impero romano diventano cives romani, siano essi africani, spagnoli, galli,…..a prescindere dalla loro etnia o religione.
Il problema della polis è il controllo dello spazio, al contrario il carattere programmatico della civitas è quello di crescere, non c’è civitas che non deliri (la lira è il solco, il segno che delimitava la città, quindi delirio significa uscire dalla lira, andare oltre il confine della città).
Ancora oggi viviamo questa dicotomia: pensiamo che la città debba ricordare la polis, con uno spazio ben definito, un territorio ben delimitato che permetta il rapporto diretto esclusivamente con la sua gente, perché si ritiene che senza il mantenimento del controllo spaziale la democrazia crolla, in quanto nella polis essa è esercitata direttamente in forma di assemblea. Oppure, l’idea che vogliamo coltivare è la grande idea romana: gente diversa proveniente da tutte le parti, che parla tutte le lingue, pratica tutte le religioni, con un’unica missione e un’unica legge?

Le moderne interpretazioni dello spazio urbano
Jane Jacobs nel fondamentale “The death and life of great american cities” (1961), all’ultimo capitolo si interroga su “The Kind of Problem a City Is”. Essa ricollegandosi agli avanzamenti degli studi in biologia e nell’informatica del biologo e matematico Warren Weaver rileva come le regole meccanico-lineari di sviluppo della città, coniugate con le tecniche statistiche, non siano in grado di spiegarne la natura, la quale, intuisce, essere simile a quella di una rete neuronale, ossia un sistema ispirato al funzionamento dei neuroni di un organismo biologico.
Jane Jacobs supera così l’approccio lineare della città “come macchina per vivere o per produrre”, che ha caratterizzato l’epoca industriale, a favore della città come “macchina per l’apprendimento” (una “learning machine” che apprende dall’esperienza), esattamente come impara e si evolve una rete neuronale.
Queste idee sono l’inizio di un processo destinato ad allargare il campo disciplinare interessato all’interpretazione, ma anche allo sviluppo operativo della città.
Jane Jacobs intuisce che benchè la città nella storia sia stata spiegata prevalentemente attraverso i suoi elementi fisici (cioè di materia sottratta alla natura), il suo funzionamento si basa sui processi biologici, da qui la città “macchina per l’apprendimento” che apre le porte alla cibernetica ed ai processi attuali di sviluppo urbano che coniugano il materiale con l’immateriale, fino ad arrivare alla città ‘ubiqua’ prima ed alla ‘smart city’ poi.
La città diventa un’entità composta da atomi e bit, in cui lo spazio fisico è integrato (o superato?) dallo spazio virtuale delle reti; la dimensione ‘finita’ dello spazio fisico della città storica subisce così la dirompente crescita dello spazio ‘acentrico’ dei flussi.
Lo spazio urbano di fronte alla grande accelerazione
I ricercatori dello Stockholm Resilience Center la chiamano la “Grande accelerazione”: si tratta dell’impennata che a partire dagli anni ‘50 ha portato alla crescita esponenziale della popolazione, all’iper sfruttamento delle risorse, all’uso di fertilizzanti nocivi, all’inquinamento da carbonio, all’impoverimento delle riserve ittiche, alla perdita di biodiversità.
La “Grande accelerazione” è stata figlia dell’età della ragione, che aveva supportato un modello di pianificazione e progettazione onnicomprensivo, con l’utopia di un mondo di prosperità e di riscatto dei gruppi svantaggiati. Questo modello è stato sostenuto inconsapevolmente dalla convinzione che la natura fosse una fonte inesauribile di energia e di materia ed un pozzo senza fondo, dove poter scaricare ogni rifiuto ed emissione senza alcun contraccolpo. Si sono ignorati nella sostanza gli avvertimenti di Paul e Ann Ehrilch in “Population bomb” (1968): “cosa succederà quando tutti i cinesi avranno una lampadina?”, di Kenneth Boulding in “The Economics of the Coming Spaceship Earth” (1966): “sia pure in modo pittoresco chiamerò ‘economia del cowboy’ l’economia aperta; il cowboy è il simbolo delle pianure sterminate, del comportamento instancabile, romantico, violento e di rapina che è caratteristico delle società aperte. L’economia chiusa del futuro dovrà rassomigliare invece all’economia dell’astronauta: la Terra va considerata una navicella spaziale, nella quale la disponibilità di qualsiasi cosa ha un limite, per quanto riguarda sia la possibilità di uso, sia la capacità di accogliere i rifiuti, e nella quale perciò bisogna comportarsi come in un sistema ecologico chiuso capace di rigenerare continuamente i materiali, usando soltanto un apporto esterno di energia”, di Nicholas Georgescu-Roengen in “The Entropy Law and the Economic Process” (1971): “….poiché il prodotto del processo economico sono i rifiuti, i rifiuti sono un risultato inevitabile di quel processo e ceteris paribus aumentano in proporzione maggiore all’intensità dell’attività economica”.
Il risultato è l’attuale situazione in cui l’uomo ha preteso di dominare su tutti i viventi, invadendone gli ambienti, senza tener conto dei limiti di energia disponibili. Dobbiamo così affrontare pandemie, cambiamento climatico, crisi energetica e perdita di biodiversità. Abbiamo compromesso le nostre risorse fino ad arrivare alla soglia della sesta estinzione, le nostre città non si ispirano più alla polis o alla civitas, ma sono diventate semplici coabitazioni.
Da questi presupposti nasce la consapevolezza che siamo entrati in una nuova era: l’Antropocene, l’era della convivenza tra processi umani e naturali, l’era delle interconnessioni, delle scelte compatibili con i tempi lunghi della geologia, delle scelte consapevoli che i nostri interventi sono altamente pervasivi, interessano tutti gli angoli della biosfera e devono creare le condizioni per il nostro futuro collettivo. Dobbiamo sviluppare una nuova prospettiva per la città che sia considerata come fenomeno della natura; una riserva naturale; un habitat dell’uomo come chiave di volta della specie.
Come sostiene Marina Alberti occorre ideare “città che pensano come pianeti”, ciò implica:
- espandere l’idea del cambiamento della città nel tempo e nelle scale spaziali, non semplicemente dal locale al globale e da un paio di decenni a qualche secolo, ma anche imparando a comprendere le scale dei processi geologici e biologici;
- sviluppare azioni collaborative per un’idea allargata di inclusione. Una tale visione riconosce la storia del pianeta in ogni elemento dell’impianto urbano: una città che pensa come un pianeta è allo stesso tempo resiliente e in grado di cambiare;
- capacità di sviluppare interazioni uomo-natura, meccanismi di feedback adattativi ed impostazioni istituzionali flessibili. Immaginare tecnologie intelligenti in sinergia con comportamenti, istituzioni e società intelligenti. Pensare in modo olistico esseri umani e società che co-evolvono con la Terra, con il supporto della tecnologia;
- pensare per scenari per un approccio sistematico e creativo al futuro, per espandere gli orizzonti delle scienze e dei processi decisionali.
L’Agenda per lo sviluppo sostenibile 2030 non è altro che l’indispensabile guida operativa per questa difficile navigazione dell’uomo e della città nell’Antropocene.
Crediti:
Massimo Cacciari, La città, Pazzini, 2004
Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città, Einaudi, 1969
Marina Alberti, Cities-That-Think-like-Planets, University of Washington Press, 2016