L’identità personale è istituto di matrice giurisprudenziale: la sua “fonte” è rappresentata da una decisione giudiziale risalente al 1978.
Nei paesi di common low, qual è l’Inghilterra, il diritto ha sempre origine giurisprudenziale perché nasce dall’applicazione – preceduta dall’interpretazione analogica – che i giudici fanno dei precetti giuridici racchiusi nelle loro decisioni. Nei paesi di civil low, invece, qual è l’Italia, il diritto ha origine legislativa perché nasce dalla legge e, quindi, è sempre codificato. Nel 1978 la magistratura italiana ha riconosciuto nell’identità personale un diritto meritevole di tutela, avvalorando l’iter argomentativo tipico del common low col richiamo all’articolo 2 della Costituzione:
◊ la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Questa norma è tradizionalmente definita “in bianco” perché contiene una clausola “generale e aperta” foriera della tutela giudiziale di nuovi diritti. Se è vero che il giudice italiano è formalista perché non può – e non deve – discostarsi dalle norme codificate, è anche vero che l’ermeneutica e l’applicazione della legge implicano, da parte sua, un’attività discrezionale, sia pure vincolata al dato normativo. Il principio di legalità, pertanto, non soffoca la creatività del giudice il quale, con un iter argomentativo simile a quello dei colleghi inglesi, può tutelare, in modo creativo e innovativo, posizioni soggettive aderenti al “sentire comune”.
Il diritto all’identità personale è stato riconosciuto dai nostri giudici “vestendo” il caso concreto portato alla loro attenzione – dal noto oncologo Umberto Veronesi – con “l’abito ad hoc” confezionato su misura per l’istante: egli lamentava che la casa di produzione delle sigarette Milde Sorte e l’editore del settimanale “Oggi” avevano strumentalizzato, piegandolo per fini pubblicitari, il significato di alcune sue affermazioni. Non solo, invece, il professore non aveva mai affermato che l’asserita minor quantità di nicotina presente nelle sigarette della marca reclamizzata “riducesse della metà” il rischio di tumore, ma semmai aveva affermato l’esatto contrario, essendo convinto sostenitore della potenzialità cancerogena di tutte le sigarette, senza distinzioni di sorta. Il produttore e l’editore sono stati condannati entrambi – in tutti e tre i gradi di giudizio – a risarcire i danni procurati all’“identità personale” di Umberto Veronesi, e cioè al suo diritto a non veder distorte le caratteristiche distintive della sua personalità di uomo e medico identificati nel contesto sociale dalla tenacia della lotta personale contro i tumori e dell’azione dissuasiva di comportamenti – quali fumare – costituenti fattori di rischio nella genesi della malattia.
L’identità digitale è istituto di matrice legislativa: a differenza della “gemella” identità personale, ha origine nella legge e, precisamente, nell’articolo 1, lett. u quater, del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD) che la definisce:
◊ la rappresentazione informatica della corrispondenza tra un utente e i suoi attributi identificativi, verificata attraverso l’insieme dei dati raccolti e registrati in forma digitale dalla Pubblica Amministrazione.
Le nuove tecnologie e la connettività Internet hanno migliorato, da un lato, la qualità della vita dei cittadini, ma li hanno esposti, dall’altro lato, al pericolo di veder compromessa l’identità personale sul web. La Rete è paragonabile a un “archivio di informazioni” di dimensioni globali dove non sono rispettati, però, i criteri tipici dell’archiviazione delle informazioni medesime quali la provenienza, la pertinenza e l’aggiornamento. Pertanto, in Rete le notizie riguardanti una persona non sono selezionate in base all’attendibilità della fonte, ma neppure contestualizzate, revisionate e messe in correlazione tra loro. Di conseguenza, è possibile acquisire in Rete notizie riguardanti taluno non vere o anche vere, ma non aggiornate, evolvendo, di riflesso, in notizie non più vere proprio perché statiche, incomplete e superate da quelle più recenti.
La Polizia Postale non manca di informare i cittadini, attraverso campagne di sensibilizzazione, sui rischi derivanti dall’usurpazione dell’identità digitale e dei dati personali in genere: il server non è una fortezza inespugnabile. Il phishing, per esempio, è una truffa consumata in danno di chi viene convinto a fornire la sua identità digitale dietro la promessa di vantaggi, di regola economici. La prudenza è la parola d’ordine: i dati personali inseriti nella Rete non sono al sicuro e sono destinati a vagare sine die nel mondo di Internet; l’oblio, e cioè la possibilità di interrompere questa circolazione, è impossibile perché il dato personale, una volta cancellato da un sito, può sempre riemergere in qualunque altro sito ed essere rintracciato nel mondo virtuale.
Mentre l’identità personale è il diritto del soggetto a essere rappresentato nel mondo “reale” delle relazioni interpersonali “come se stesso”, e cioè coi segni caratteristici – rappresentati dal portato delle sue convinzioni etiche, religiose, civili, culturali e politiche – idonei a distinguerlo dagli altri, l’identità digitale è il diritto ad avere un’identità informatica nel mondo “virtuale”. Mentre l’identità personale è “unica” quella digitale è “poliedrica” dato che è frammentata nelle varie applicazioni informatiche eseguite in Rete. Entrambi i diritti hanno piena tutela giurisdizionale perché riguardano “la persona umana” alla quale la nostra Costituzione ha riconosciuto una posizione di indiscussa priorità anteponendola – nei Principi Fondamentali (articoli 1 usque ad 12) e nella Parte Prima (articoli 13 usque ad 54) del testo – sia alle Istituzioni sia all’Organizzazione dello Stato, da considerare al suo servizio.