Recentemente, grazie alla collega e docente di diritto C. Fanara, mi sono imbattuta in un’antropologa e pedagogista del MIT: Mizuko Ito. Il suo approccio vuole integrare interessi, relazioni tra pari e con mentori e opportunità reali per garantire un’offerta formativa davvero efficace, in cui il ragazzo oltre a non perdere la motivazione allo studio trova poi connessioni sia personali sia lavorative.
In questo articolo, prosecuzione della serie riguardante la media education, mi voglio occupare di educazione informale, cioè quella che passa attraverso il web e che coinvolge strettamente i “nativi digitali”. Mimi Ito ha compreso l’engagement che procurano i gruppi di interesse e ha esposto una teoria pedagogica applicabile nei contesti formativi scolastici.
Spesso i giovani vengono descritti come adulti in potenza e infatti vengono formati con il solo obiettivo di farli entrare nella comunità, dove parteciperanno da persone completamente formate. Esistono altri modi di leggere i ragazzi, uno di questi è offerto da James e Prout i quali intendono la cultura dei bambini come un qualcosa di unico e autonomo. Gli agenti, in questa visione, non sono tabulae rasae da riempire con i contenuti della società, ma sono esseri completi, con desideri, bisogni e creatività peculiari.
Per comprendere i bisogni educativi dei giovani è necessario comprendere la loro cultura, senza voler plasmare la ricchezza di cui sono portatori, cercando di incastonarli in categorie che appartengono ad altre generazioni.
La lotta generazionale è un qualcosa di imprescindibile, certo. Il divenire è il risutato di una sintesi positiva tra eredità e novità. Il problema è che spesso il patrimonio della tradizione resta qualcosa di statico, da conservare in depositi e quindi mai investito. Gli investimenti stimolano l’innovazione, l’adattamento al tempo, competizione positiva, crescita. Ultimamente la gelosia dei vecchi e la paura del cambiamento hanno sclerotizzato l’educazione, tant’è che resta ancorata a vecchie pratiche mentre l’ambiente esterno è totalmente rivoluzionato.
I ragazzi iniziano scuola che sono molto motivati, ma giungono alle superiori che non hanno idea su come approcciare al loro futuro. Alla scuola manca la “messa a terra”, il dialogo con il mondo del lavoro, con la società. Non si fa realmente orientamento, tant’è che in Italia siamo agli ultimi posti per numero di laureati. Il problema è che la classe è un rifigio, nel quale si ripetono nozioni, ma di cui non se ne capisce la sua vera funzione. Anche i genitori la intendono come un posteggio per i ragazzi, non ne colgono la fondamentale valenza orientativa. E’ come se l’educazione fosse un laboratorio scientifico in cui si teorizzano leggi, in cui si simulano situazioni, ma di cui non fosse importante che esse funzionassero anche al di fuori degli esperimenti mentali. E’ come se l’obiettivo della scuola non fosse quello di guidare i ragazzi verso l’esterno, ma di concluderli in una somma di voti che, tra l’altro, hanno quasi sempre una scarsa attinenza con la verità, con le reali possibilità degli alunni.
Il connected learning che Mizuko Ito propone è un’alternativa alla lezione frontale. L’antropologa partì indagando la qualità dell’apprendimento online. I ragazzi predono parte a gruppi accumunati da interessi comuni. In questo caso il dialogo con i pari e con metori permette loro di raggiungere ottimi livelli di conoscenza, senza avvertire il calo dell’attenzione. Le pratiche cosiddette “interest-driven” permettono agli utenti di connettersi da varie parti del mondo. Viene condivisa una passione che può essere legata al gaming, alla biologia, alla botanica, all’arte, alla letteratura… sul Web si trova di tutto davvero.
Io ho superato un esame di matematica all’Universtà con trenta e lode proprio grazie alle lezioni di YouTube.
Online è possibile, in seguito, trasformare il legame utilitaristico, quasi professionale, in una connessione amicale, che coinvolga tutto l’essere. I legami, i gruppi sono un antidoto alle derive anomiche, a cui spesso i giovani sono condannati, visto che a scuola non vengono offerti loro sensi a cui possano attribuire un senso. Il significato è sempre qualosa che ha bisogno di un contesto e nell’aula ciò che maggiormente manca è proprio il riferimento con l’ambiente esterno.
I ragazzi vanno a comporre con i loro interessi quel mosaico di subculture che poi, in definitiva, costruisce la cultura mainstream del web. Internet è costituito da nicchie, ma estremamente interconnesse e globali. Chiunque può sperimentare la propria identità connettendosi con gruppi sparsi in tutto il mondo. Ognuno può “diventare ciò che è” senza essere inevitabilemente definito dal “palinsesto” dei media tradizionali e delle lezioni asimmetriche.
Certamente il marasma del web non è facile da districare. La libertà cui i ragazzi sono gettati spesso li disorienta ancora di più. E’ sempre la responsabilità che trasforma la scelta libera in un progetto. A questo deve rispondere l’insegnante. La scuola deve stimolare l’interesse negli alunni, la sperimentazione, ma deve altresì insegnare metacoscienza. E’ questa la sfida più importante. Bisogna però non finire per demonizzare le nozioni, le quali, in realtà hanno un valore molto importante. Mio cugino, recentemente, ha ammesso che le ricerche in rete non sono semplici, che gli si aprono tantissimi siti e non gli viene immediatamente data la risposta alla sua domanda. Per saper discernere nel testo, spendo dove cercare, bisogna già conoscere l’argomento. Inoltre internet funziona come i libri i quali, come insegnava Platone, ripetono sempre la stessa cosa. L’insegnante invece è empatico e può dare la risposta che richiede l’alunno, modulando le sue parole, perché infine possa trasferire il concetto. Umberto Eco sosteneva che è acculturato colui che sa dove cercare quello che gli serve, non chi ricorda tutto immediatamente. La scuola deve fornire, allora, un impianto nozionistico solido con cui il ragazzo possa fare ricerche autonome e di qualità, discriminando ciò che è vero da ciò che è dubbio. Sono le conoscenze preesistenti che garanticono la facoltà di setacciare e la possibilità di saper dove guardare. Tuttavia quel che manca nella scuola odierna è proprio la capacità di invogliare i ragazzi a incominciare quelle ricerche, approfondendole.
Dall’unione tra interessi e relazioni emerge il desiderio di essere quel qualcuno che si è, costruendo il proprio futuro in quella determinata direzione. Emerge, in breve, la responsabilità di effettuare una scelta di vita. Perché scegliere spaventa? Se durante gli anni della scuola dell’obbligo è stata sperimentata l’identità dei singoli attraverso un’indagine dei propri interessi, un loro essere calati nella realtà esterna e declinati in base alle materie di indirizzo, decidere cosa fare all’università diventa semplicemente accompagnare quell’entelechia naturale. Invece, per come è pensata la scuola, l’alunno sceglie per attribuirsi un essere. E’ per questo che la decisione di intraprendere un percorso viene avvertita come un salto nel buio-effettivamente così concepita la è. Se invece la scuola lasciasse che il bambino crescesse sperimentando le sue passioni, la scelta di seguire la sua inclinazione non apparirà come qualcosa di stocastico. L’orientamento non sarebbe un momento angosciante.
Sul sito del progetto dell’apprendimento connesso si leggono diversi articoli e ricerche in cui viene dimostrata l’efficacia dell’approccio pedagogico basato sulle pratiche interest-driven. E’ provato che gli quando una materia interessa stimoli l’attenzione. Inoltre se si approfondisce quell’argomento online è possibile conoscere altri individui con cui condividere punti di vista e ampliare la conoscenza personale.
Esistono tantissime ricerche sul ruolo educativo dei videogiochi. Ovviamente esistono esempi di giochi più strettamente formativi, in cui vengono inegnate le materie di scuola. Esiste però anche molta letteratura che dimostra come i gameplay permettono di sviluppare conoscenze che esulano dalla meccanica del gioco. Per esempio i ragazzi che leggono molte recensioni di videogiochi ottengono livelli più alti nella lettura e nella scrittura. Socializzare insegna a sviluppare competenze civiche, diventando un antidoto alla chiusura culturale e al razzismo.
Voglio descrivere un case study che mi riguarda da vicino. Carlo, il ragazzo dislessico che seguo da tempo nello studio è un appassionato di videogiochi, come tutti i ragazzi della sua età. Minecraft e altri noti videogame, in cui si gioca assieme ad altri utenti provenienti da tutto il mondo e in cui i comandi sono in inglese, gli hanno permesso di apprendere tale lingua. Per un soggetto DSA l’elaborazione linguistica è molto difficoltosa, eppure l’immenso interesse che gli suscitano i videogiochi lo ha portato a oltrepassare i propri limiti cognitivi, accelerando la curva di apprendimento nell’inglese.
Mimi Ito sostiene che le relazioni con mentori siano anche queste molto importanti. Come ho detto poc’anzi bisogna infatti che il ragazzo impari il discernimento e per far ciò deve affidarsi a esperti. Purtroppo non tutti possono permettersi un mentore e a scuola la lezione così com’è concepita si intoppa proprio nel momento in cui dovrebbero insaurarsi relazioni che vadano oltre la semplice distribuzione di contenuti. A Chicago sono state create diverse piattaforme in cui permettere ai ragazzi di connettersi con mentori e pari (un esempio è il Digital Youth Network). La formazione va oltre l’aula. Passa da internet e attraverso le varie possibilità culturali esterne.
Come dovrebbero formarsi gli insegnanti e i mentori? Innanzitutto dovrebbero smantellare pregiudizi antichi che finiscono per condizionare emotivamente la resa dei test. Per esempio il fatto che le donne siano meno brave nella matematica. Altrettanto sbagliata è l’idea per la quale chi dovesse essere appassionato ai videogiochi e non fosse particolarmente ferrato nella matematica, dovrebbe rinunciare al sogno di partecipare alla costruzione di un gioco. Al di là della possibilità di intraprendere una carriera da youtuber o da giornalista, recensionista di giochi, il videogame si nutre di arte, di storytelling e di musiche. Se a una persona piace l’economia può occuparsi del marketing, delle vendite del videogioco; se si diverte a inventare soggetti può percorrere una strada da creativo. Ad esempio, recentemente, in seguito all’uscita di The last of us 2, i musicisti di tutto il mondo si sono mobilitati in una challenge compositiva, grazie al fatto che Ellie, la protagonista, suonasse la chitarra. Dietro un interesse possono svilupparsi innumerevoli opportunità. L’importante è sempre avere chiara in mente la propria passione e non svenderla per “occupazioni considerate sicure”.
Come è possibile applicare il conected learning nell’aula? Spesso gli insegnanti lamentano il fatto di non poter stimolare come vorrebbero i ragazzi essendo in scacco dei curricula ministeriali, di scadenze scolastiche e test standardizzati a cui rendere conto. Ho già evidenziato come le nozioni siano estremamente importanti. E’ l’unità di misura, il nostro strumento con cui poterci districare nelle maglie dell’ipertesto. Non solo. Per sperimentare la propria identità è necessario offrire diverse alternative di pensiero e di certo alle elementari non è immediato conoscersi. A posteriori un adulto può capire di aver sempre dimostrato un’inclinazione particolare, di essere cambiato ben poco, ma non è sempre così. La stessa società ci impone di non settorializzarci troppo. Meglio le soft skill, trasversali, piuttosto che le hard skill, oggi come oggi. Cosa significa questo? Che la famosa “cultura generale”, quel substrato di conoscenze ampio è indispensabile per connettere i saperi, le sfere e non essere eccessivamente selettivi. Il rischio altrimenti sarebbe quello di non cogliere correlazioni da altri piani conoscitivi, restando imbrigliati in una specializzazione poco funzionale. La cultura generale è come il pelo dell’acqua. Senza questa superficie orizzontale e vasta non sarebbe possibile nuotare ed eventualemente decidere di immergersi e scendere nelle profondità. La scuola deve allora dare conoscenze come ha sempre fatto, ma deve capire come collegarle. L’insegnante deve imparare a mettersi nei panni di un alunno, deve ritradurgli la sua materia in base alla realtà sociale e all’idioletto, allo stile cognitivo di ciascuno. La filosofia, per esempio, è vista come un sapere chiuso nell’università e buono a nulla. Quando ho insegnato ci ho sempre tenuto a portare il mio lavoro da filosofa in classe. Gli articoli, le soluzioni creative a problemi complessi, comprese le questioni che la tecnologia pone e che solo le domande giuste, quelle di pertinenza filosofica, sanno disambiguare. Molti alunni sono rimasti stupiti di quanto utile possa essere la filosofia.

Cosa deve domandarsi l’insegnante che vuole applicare il connected learning alla scuola?
1) Interessi: il tema può essere collegato con gli interessi personali? 2) Relazioni: Ci sono opportunità per gli studenti di cooperare con i pari o con esperti, sia online sia offline? 3) Learning Goals: Ci sono connessioni creabili tra interessi, cultura pop, materie scolastiche e obiettivi esterni alla scuola? 4) Produzione: Si può orientare il processo conoscitivo perso la produzione di qualcosa? Un output concreto? 5) Sfida: Gli studenti sono guidati dal fine di conoscere stesso o da quello di condividere? 6) Mondo reale: Collegamenti della materia con il mondo esterno per stimolare la motivazione personale e l’autenticità? 7) Partecipazione: Gli spazi di apprendimento possono essere accessibili da altri che condividono gli interessi per arricchire l’esperienza conoscitiva? 8) Rete aperta: L’insegnamente può collegarsi con l’esterno, le case, la comunità? C’è un modo per cui gli studenti possano condividere il loro apprendimento scolastico attraverso la loro rete online e offline?
Un esempio solido con cui stimolare gli ineterssi degli alunni è inserire dalle elementari la programmazione. Il coding, la produzione di videogiochi e di robot sintetizzano interessi personali che coinvolgono molte competenze. Anche l’ambiente esterno, offline e online, trova una giustificazione molto forte. Scuola di Robotica di Genova è da anni che offre pregetti di coding e robotica nelle scuole e in camp. Il goal è far approcciare precocemente i ragazzi al mondo della tecnologia.
Recentemente con scuola di robotica ho lavorato alla progettazione di alcuni webinar, in cui abbiamo inserito, in contesti didattici, la stampa 3D e la sensoristica del Microbit. Queste lezioni sono stati finanziati dall’unione europea. Si tratta di un progetto europeo chiamato We are the makers. L’obiettivo è coinvolgere i ragazzi, dalle elementari alle superiori, nel mondo STEAM. Si vuole portare l’internet delle cose negli scenari didattici, offrendo agli oggetti interattivi una funzione sia pedagogica sia socialmente utile. All’interno del progetto (di durata triennale) stati prodotti learning scenarios e manuali.
Abbiamo usato la stampa 3D per stampare i caratteri mobili di Gutenberg. La lezione ha previsto un’introduzione storica e sociologica sulle invenzioni e la stampa. Infine, ricorsivamente, i ragazzi hanno potuto toccare per davvero con mano la storia, stampando la loro stampante. Con Tinkercad hanno creato il loro prototipo di carattere mobile e con la stampante 3D (ormai una tecnologia accessibile) hanno ottenuto la loro matrice. E’ un progetto ricorsivo: la stampa 3D per creare una stampante sul modello di quella di Gutenberg e stampare pagine scritte. Oltre alla funzione didattica di far conoscere gli alfabeti, il percorso di tecnologie e cambiamenti sociali che ha permesso a Lutero di trasformare la stampa in una rivoluzione, il carattere mobile ha anche una funzione sociale: la lettera in rilievo è un braille per gli ipovedenti; assemblare le lettere è un aiuto per i dislessici; infine le tessere possono diventare all’occorrenza un gioco come scarabeo, favorendo il divertimento e la socializzazione tra pari.
Nelle altre lezioni abbiamo creato una bottiglia smart. Abbiamo strutturato una lezione sull’acqua, toccando la biologia, Talete e infine l’impronta idrica e la memoria. Un’altra lezione l’abbiamo strutturata sul coronavirus. Abbiamo creato un wearable che suonasse nel caso ci avvicinassimo troppo al viso. Pertanto abbiamo ripercorso la storia dei virus e dei batteri, il loro ruolo nelle battaglie, offrendo una panoramica sulla tecnologia per combattere il SARS-Cov-2.
Questi esempi chiariscono come la tecnologia possa essere innovativa. Come possa modificare le pratiche educative, coinvolgendo davvero gli studenti. I ragazzini collegati, ma anche i colleghi erano molto motivati. Ci hanno mandato i loro tentativi di coding, i loro smart object. Inoltre ci sono arrivati tanti feedback in cui le persone si complimentavano per il servizio che abbiamo offerto loro.
Sono convinta che se la tecnologia verrà accompagnata a un cambiamento nelle pratiche e nella mentalità degli addetti ai lavori, ecco, i talenti non verranno sprecati e si recupererà tanto vuoto esistenziale e infelicità diffusa. Non solo, forse i videogiochi otterranno finalmente il ruolo formativo che spetta loro, intravedendo in essi un’opportunità reale, che non si ferma alla retorica dell’apprendimento con ill gioco. Far conoscere il coding in tempo garantisce lo sviluppo del pensiero computazionale e permette di esplorare talenti celati. Il videogioco fa scoprire un’opportunità nella matematica, invogliando molti più studenti a studiarla.