L’uomo ha sempre dovuto inventare strumenti per sopravvivere. Platone nel Protagora raccontava di quando Prometeo rubò l’arte e il fuoco agli Dei, affinché gli esseri umani avessero una possibilità di sopravvivenza, dato che il fratello Epimeteo, incaricato di distribuire le abilità tra gli animali, sbagliò, lasciando l’uomo “nudo”, senza alcun senso particolarmente sviluppato e senza una razionalità così spiccata, come invece spesso abbiamo voluto attribuirci.
Pico della Mirandola, qualche secolo più tardi, notò egli stesso che l’essere umano portava con sé una mancanza originaria, una lacuna che, però, sapeva riempire con la cultura, ogni volta diversa a seconda dell’ambiente circostante, riuscendo così a trasformare quel difetto nel suo punto di forza.
In effetti, è solo grazie all’arte, alla techne, che la specie umana ha saputo adattarsi ovunque. Agli uomini però, proseguiva, nel dialogo, Platone, mancava il senso di giustizia, infatti erano sempre in lotta tra loro. Allora Zeus, dopo aver punito Prometeo per la sua ubris, la sua tracotanza, diede in dono agli uomini anche il senso di saggezza e di giustizia, perché potessero stare insieme e progredire nella comunità. Ma, allora, anche noi, con le nuove tecnologie, necessitiamo di una sapienza in grado di farci discernere, di farci utilizzare al meglio, con pensiero critico, i nuovi strumenti? È su questo punto, infatti, che insiste la Media Education.Nel porre la questione, mi domando, allora se bisognerà applicare la sentenza di Prometeo anche alle Big Tech.
Media education e “nativi digitali”
La Med, l’associazione nazionale per l’educazione ai media e alla comunicazione, nacque il 28 febbraio 1996, da docenti universitari. Il principale mezzo di diffusione di quest’associazione fu Intermed, che fino al 2010 era una newsletter solo per i soci, ma poi diventò un progetto su larga scala, edito da Erikson Editore, “Media Education: studi, ricerche, buone pratiche”.[1]
Viene utilizzata la dicitura “Media Education”, perché l’inglese permette di includere nello stesso termine i tre aspetti di questa materia: l’educazione -con- i media, l’educazione -ai- media e l’educazione -sui- media. Lo scopo, infatti, non è solo quello di usare le nuove tecnologie come strumenti educativi, ma è necessario pure fornire una chiave, un vademecum per la loro comprensione. Inoltre, con la diffusione delle comunità di apprendimento online, le blended community (comunità miste, in cui si effettuano sessioni di apprendimento dal vivo e sul web) e questi ultimi anni della didattica digitale integrata è diventato necessario analizzare anche la nuova dimensione dell’e-learning.[2]
Spesso si pone l’accento sulla questione dell’asimmetria educativa, tra educando ed educatore, alla luce dei nuovi media. I ragazzi ne sanno di più, quindi mettono in crisi la competenza dei precettori. Di fronte a loro, in realtà, è giusto provare un certo disagio, ma non per questo l’insegnante deve sentirsi escluso dall’impresa educativa. Bisogna ridefinire i campi della superiorità: il maestro o il genitore sono sia “sopra”, sia “sotto”; inferiori, per la mancata dimestichezza con le nuove tecnologie e superiori, per la visione prospettica consolidata e l’autorità formativa. La sfida e la difficoltà riposano sul fatto che entrambe le posizioni vanno fatte fruttificare e questo è possibile proprio dentro la relazione educativa, ora più che mai basata sul dialogo.[3]
I giovani dell’attuale società sono stati definiti da Marc Prensky “nativi digitali” e sono la generazione che è nata con i nuovi media e che quindi li utilizza con naturalezza. La data di spartizione tra loro e tutti quelli che, nella tecnologia, sono gli “immigranti” non è fissa. Prensky l’aveva fatta coincidere con l’introduzione del sistema operativo Windows, negli anni Ottanta, ma forse è una data troppo precoce. È più verosimile datare i “nativi” ai primi anni 2000, quando internet entra nelle case delle persone. In ogni caso, la data è un’indicazione convenzionale; la realtà è sempre più fluida, vi sono due poli estremi e un punto medio più sfumato.
I “nativi” sono un ampio gruppo, che necessita di essere indagato, perché ormai sono quasi ventenni, sempre più prossimi a entrare nel mondo del lavoro e nella società. Per evitare che la divisione sociale sia troppo grande e irrecuperabile è necessario intervenire adesso che sono nella scuola e nel nucleo familiare, i luoghi deputati alla formazione dell’identità e alla costruzione della conoscenza. Si definisce digital divide proprio questa divisione, tra Net Generation e le generazioni nate prima, ma indica anche la separazione legata alle diverse possibilità economiche, che impediscono un uguale accesso alle tecnologie e quindi alle opportunità ad esse legate. La scuola pubblica potrebbe offrire ai ragazzi più poveri l’accesso ai media, permettendo il loro utilizzo nell’ambiente già incaricato all’eliminazione, o riduzione, dell’ingiustizia sociale.[4]
L’obiettivo è, inoltre, quello di rendere la società a misura di queste nuove generazioni, perché sono loro che porteranno avanti le istituzioni, le quali, secondo l’analisi che ne dà Erik Erikson in “Gioventù e crisi di identità”, traggono la forza vitale per sopravvivere proprio dagli adolescenti. Il mezzo per “entrare” nei ragazzi è l’ideologia, ma se questa risulta inadeguata, non essendo a misura di giovane, le istituzioni finiscono per estinguersi.[5]
Intelligenza digitale
Le nuove tecnologie hanno introdotto tutta una serie di cambiamenti, semantici e pragmatici. Per poter usare l’interfaccia del medium è necessario comprendere i significati che ogni gruppo sviluppa a partire dall’interazione con lo strumento. Ad esempio, Twitter, imponendo un limite alle parole da condividere con i follower, ha incentivato l’ideazione di strategie per ottimizzare il poco spazio a disposizione. A tal proposito, gli utenti hanno sviluppato un linguaggio abbreviato. Si tratta di un nuovo gergo, non comprensibile da chi non fa parte della nuova cultura.[6] Passando attraverso il filtro dei nuovi media, come Facebook, antichi significati, come il concetto di amicizia, hanno mutato il loro senso. Infatti, come dice Ludwig Josef Johann Wittgenstein, essendo il significato la funzione in un contesto di parole e azioni, una volta mutato il gioco linguistico e quindi gli scopi, non possiamo credere che quello si sia mantenuto identico. Per comprendere i sensi delle parole diventa importante contestualizzarli. L’amicizia dei social network non è un legame consolidato nel tempo e rinnovato quotidianamente, ma si tratta di una relazione differente, da non confondere con l’altra categoria. È un legame che si stabilisce solo premendo un pulsante a testa, uno di richiesta e l’altro di accettazione, e anche la fine dell’amicizia avviene altrettanto facilmente: basta che uno degli utenti elimini l’altro dalla propria lista. Certamente, anche i comportamenti sono stati profondamente influenzati dalle nuove tecnologie, le quali hanno creato la cosiddetta media culture, caratterizzata da una socialità orizzontale, ovvero la “dittatura della maggioranza”, come è orizzontale il piano su cui si estende la conoscenza che ci offrono, amplissima in larghezza, ma mancante di profondità. Anche le logiche temporali sono state ridefinite, viene infatti esaltato il presente. Il tempo e lo spazio avevano cambiato i loro connotati già con la Modernità: la seconda categoria era diventata globale a partire dalle scoperte geografiche e il tempo, richiedendo, per le nuove attività lavorative, misurazioni più precise e che non si interrompessero al calare del sole, creò la puntualità e i valori che ad essa si legano.
Con internet è poi emerso un protagonismo nuovo e la lettura è andata riducendosi, perché ridotti sono i tempi di attenzione. I media, insomma, come sostiene Pier Cesare Rivoltella, fanno la vita del ragazzo, non sono solo una sua parte.[7]
Il libro richiede un’intelligenza logico-linguistica, infatti il suo codice dominante è quello alfabetico, mentre nel web è solo uno dei tanti codici (audio, video, iconico). Nell’ipertesto l’informazione viene reperita esercitando la cosiddetta opzione click: si sceglie autonomamente il percorso e il contenuto da usufruire, muovendosi tra i nodi che connettono i contenuti in rete. È un’indipendenza che si apprende sin da piccoli, questa, anche già prima che si sappia leggere. Internet, avendo un codice spesso e volentieri iconico, rende possibile l’interazione con l’ipertesto, senza dover conoscere in anticipo i simboli linguistici e da ciò si deduce che non è affatto vero che la rete possa essere un mezzo di alfabetizzazione, com’erano state le stampe di Lutero. Invece, è stato, in particolare, l’apprendimento, asserisce Paolo Ferri, ad aver sentito gli effetti del World Wide Web: un tempo avveniva per assorbimento, attraverso un esperto, in maniera diretta, con la lezione, o indiretta, con il libro, mentre oggi è per prove ed errori, per esperienza. Si impara facendo, come con i videogiochi.
Certamente internet offre anche notevoli vantaggi: attraverso il computer si può rintracciare facilmente solo ciò che è rilevante per me, per mezzo della funzione “trova”. Con il libro, invece, bisogna per forza leggere ogni sua frase, anche se l’informazione che si cerca non occupa che una piccola parte dell’intero testo.
La fruizione sul web è più libera, l’utente diventa più attivo e vengono coinvolti più sensi insieme. Il problema, però, è che si tende a perdere la capacità di concentrarsi, abituati a saltare di link in link e la distrazione, molto più facile, porta spesso a uscire fuori tema. Si è anche visto che si tende a leggere una pagina ad “F”: solo le prime righe e poi si scorre con lo sguardo lungo il margine sinistro[8]. Dunque, a meno che l’informazione non sia data subito, si rischia di non trovare ciò che si cerca. È anche vero che, evitando i testi più lunghi, si rischia di lasciarsi sfuggire racconti e articoli, che potrebbero essere molto significativi per la crescita personale, inoltre, non leggere approfonditamente autorizza quasi gli altri a raggirarci.
A volte, poi, l’operazione di ricerca in rete si esegue in gruppo e l’intelligenza diventa collettiva, il che significa che si instaura non solo una collaborazione positiva (a partire dalle teorie di Lev Vygotskij sulla natura sociale dell’apprendimento si sono sviluppate ricerche su un uso collettivo del computer, dimostrando che il lavoro di gruppo, essendo più motivante, porta risultati migliori), ma può anche capitare che il risultato sia un’intelligenza normale, ma divisa tra vari soggetti, che, presi singolarmente, non hanno invece capacità adeguate.
I ragazzi si dice vivano costantemente in una modalità multitasking, cioè eseguendo più compiti contemporaneamente: chattano su Facebook, ascoltano Ariana Grande su YouTube, scorrono informazioni per la lezione che devono preparare per la scuola, rispondono alla madre. Questo modo di agire porta, è vero, svariate conseguenze positive alla cognizione, quali la velocità di esecuzione, flessibilità, adattabilità, gestione di situazioni complesse, ma, allo stesso tempo, si perdono sia la capacità di approfondimento, sia l’attenzione prolungata. I nuovi media, poi, tendono a generare una comunicazione più sincronica, quella tipica del faccia-a-faccia, grazie alle chat e alla nostra velocità di digitazione, ma il sincronismo lo sottraggono proprio dal reale: l’essere sempre collegati e il voler tenere contemporaneamente un piede nel virtuale e uno nel reale, porta, inevitabilmente, a un rallentamento nella vita offline, modificando le interazioni sincroniche del face-to-face in comunicazioni in differita. È interessante eseguire un semplice esperimento mentale, per comprendere cosa comporti il multitasking: si traspongano nell’offline sia le comunicazioni virtuali, sia quelle reali e si osservi che cosa ne risulta. La nostra situazione somiglierebbe molto a una stanza piena di gente, in cui pretendiamo di parlare con tutti. Ci gireremmo di continuo tra i vari dialoganti, interrompendo, senza logica, discorsi diversi (e questo occupandoci magari anche di altri compiti). Oltre alla dubbia possibilità di riuscire a coordinarsi, il problema riguarda anche un mancato rispetto per gli altri e per gli impegni che vengono assunti, ma il rispetto non era una base della comunità? Allora, a ben vedere, il social network non è così sociale e di supporto alle relazioni come vorrebbe essere.
Secondo Ferri ciò che ne risulta è un nuovo settaggio del sistema cognitivo. Attraverso l’antropologia noi sappiamo che, ad ogni invenzione di strumenti, cambiano anche le connessioni cerebrali: con un bastone, ad esempio, si allunga lo spazio disponibile per l’uomo e così, ampliandosi il suo raggio di azione, cambiano le connessioni cerebrali a sfruttarlo. Esistono, però, anche posizioni meno radicali nel considerare i “nativi” alla stregua di “mutanti”. A sostegno di queste c’è lo stesso Rivoltella, per il quale, recentemente, si tratta più che altro di una generazione che utilizza le nuove tecnologie con una naturalezza maggiore. In un articolo, Rolf Schulmeister, appoggiando le teorie individualistiche (in opposizione alle prospettive universalistiche, sostengono la non esistenza del concetto, mentre ad esistere sono solo gli individui), afferma che non c’è una grande natura umana, bensì un insieme di soggetti con interessi, motivazioni e vissuti differenti. I giovani, secondo le ricerche da lui riprese, non usano i media al primo posto nelle loro giornate, ma sono soprattutto membri di associazioni, come gli sport club, e lo stare con gli amici resta un bisogno fondamentale. Inoltre il fatto di passare tante ore su internet potrebbe essere mal interpretabile se non si tenesse conto del fatto che, oggi, ogni medium, antico e recente, è stato integrato all’interno di uno stesso (la multimedialità). Sulla rete, infatti, è possibile ascoltare musica, guardare la TV, comunicare, leggere notizie. I ragazzi, quindi, conservano le motivazioni che avevano i genitori, ma, semplicemente, le filtrano attraverso internet, utilizzato sempre con la priorità di stare con i pari e per divertimento[9]. Tuttavia, sia le posizioni più radicali e sia quelle meno concordano sul fatto che ai nove tipi di intelligenza di Howard Gardner, oggi, con la diffusione dei nuovi media, si può parlare anche di un’intelligenza digitale. Inoltre, come anche ha sostenuto Antony Di Bartolo, dell’Università di Harvard, è necessario ora strutturare test specifici per misurarla. Questo sarebbe di grande utilità anche per comprendere le operazioni intrinseche, che possono servire come base di formazione per gli “immigranti digitali”.
Media Education: linee di intervento
Secondo Rivoltella la Media Education non è affatto una novità: dopo gli anni Sessanta, la scuola e la cultura, da elitarie, divennero di massa, attraverso i media tradizionali. Si estese, infatti, l’accesso alle informazioni a quelle frange che fino a quel momento ne erano escluse. La Rai promosse l’alfabetismo, con il famoso maestro Manzi, e portò la letteratura e il teatro in casa degli analfabeti attraverso i grandi sceneggiati. Anche l’Illuminismo, nel Settecento, servendosi di differenti modalità, intervenne per eliminare l’ignoranza, causa di superstizione. Ciò diede alla luce l’opinione pubblica, capace di controllare i governanti, la politica. Tuttavia l’idillio si interruppe proprio con l’arrivo dei mezzi di comunicazione, quando il ponte diventò percorribile da entrambi i lati e la politica poté, a sua volta, controllare le masse. Uno degli obiettivi della Media Education è proprio quello di risvegliare un’intelligenza critica nei giovani (la saggezza di Zeus, perché l’arte di Atena non era sufficiente), rendendoli capaci di esaminare approfonditamente le informazioni, al fine di scovare gli obiettivi politici, ideologici, economici che si nascondono dietro i messaggi che ricevono, per non essere passivi, ma diventare, invece, autenticamente liberi e responsabili.
La scuola, all’emergere di ogni medium (il cinema negli anni Sessanta, la TV e la pubblicità negli Ottanta), inserì nel proprio programma di studi una lettura di questi strumenti. Oggi però le nuove tecnologie complicano le modalità di intervento: ormai non sono più vincolate a un luogo fisso, ma diventano “portabili”. Con il cellulare di ultima generazione è, infatti, possibile connettersi sempre e ovunque, quindi diventa difficile controllare le “rotte” del ragazzo, sul quale ricadono, allora, tutte le responsabilità, tra le quali quella di essere attore di significati condivisibili. Infatti, con il web 2.0, da ricettori siamo diventati anche produttori di messaggi; non riceviamo più passivamente un’informazione veicolata da uno strumento a una massa, com’era per la televisione, ma siamo anche attori, creiamo attivamente i nostri messaggi e li condividiamo. Ecco perché è necessario insegnare un’etica della rappresentazione, ovvero le massime della conversazione di Paul Grice, riassumibili nella formula seguente: non dare un contributo eccessivamente o limitatamente informativo, dallo vero, pertinente e non oscuro. Oggi, però, si tende a non tenere conto dell’importanza di essere testimoni, non si tiene conto dell’altro, si “chiacchiera” e si “curiosa” e il dialogo non è visto come un mezzo per superare la propria particolarità, arricchendosi della prospettiva dell’altro, ma è solo un monologo finalizzato a un’esibizione narcisistica. Se si partisse dalla constatazione di non sapere, si ascolterebbe di più, o, qualora non ci fidassimo degli altri, almeno ci metteremmo alla ricerca delle risposte che non abbiamo.
Per intervenire nelle aule scolastiche si può o creare una disciplina autonoma, una materia curricolare, oppure rendere la Media Education trasversale tra tutte le materie, cosicché ognuna dia il suo specifico contributo. In ogni caso è necessario puntare su un uso condiviso dei media, impedendo l’isolamento di qualcuno. Il libro non deve scomparire, ma vanno inserite anche altre risorse. L’insegnante dovrebbe guidare alla critica per navigare e interpretare in modo corretto. Oggi uno dei problemi del web è proprio l’iperinformazione e il fatto che sia più facile trovarvi l’informazione cattiva, anche solo per ragioni statistiche. Come si fa, però, a giudicare una notizia come falsa senza avere già conoscenze precedenti? L’insegnante dovrebbe, da un lato, fornire sempre nozioni agli alunni, ma, dall’altro, ha da educarli a un uso critico della ragione. Bisogna far sviluppare una sorta di meta-conoscenza, ovvero una conoscenza relativa all’attendibilità dei testimoni. David Hume ci dà un’indicazione generale per rifiutare l’informazione di un testimone sospetto: si può nutrire un dubbio se l’altro si contraddice, se ha un interesse economico, politico per quello che sta affermando, se, insomma, si può sospettare ragionevolmente che le sue intenzioni non siano benevole. Se esita o è violento o troppo insistente, se manca di attenzione verso se stesso e verso gli altri, se non è competente o è poco chiaro.
Insomma l’insegnante conserva la sua valenza anche da “immigrato digitale”, portatore di quella giustizia consegnata da Zeus agli uomini. Senza la presenza di un mentore, portatore di etica e umanità, la scuola rischierebbe di ridursi a mera formazione di abilità strumentali, dimenticando l’obiettivo pedagogico principale, quello di far sviluppare l’autonomia e la capacità di trascendersi.
[1]M. AGLIERI, Questioni di media education: il contributo di Cesare Scurati nelle pagine di Intermed, in “Rivista Formazione Lavoro Persona”, numero VIII, anno III (2013), p. 1.
[2]R. BIAGIOLI, A. CALVANI, C. MALTINTI, L. MENICHETTI & S. MICHELETTA , Formarsi nei media: nuovi scenari per la formazione dei maestri in una società digitale, in “Rivista Formazione Lavoro Persona”, numero VIII, anno III (2013), p. 1.
[3]M. AGLIERI, Questioni di media education: il contributo di Cesare Scurati nelle pagine di Intermed, cit., p. 2.
[4]Cfr. P. FERRI , Nativi digitali, Bruno Mondadori, Milano, 2011.
[5]Cfr. E. H. ERIKSON , Gioventù e crisi di identità, Armando Editore, Roma, 1995 (1968).
[6]G. RIVA , Psicologia dei nuovi media, III ed., Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 117-119.
[7]P. C. RIVOLTELLA , La Media Education, fra tradizione e sfida del nuovo, inserto “New Media Education” di “Scuola e Didattica”, n.15, anno LII (2007), p. 52.
[8]F. PECORARI, Trasformazione della rete e opportunità per la scuola, in “Rivista Formazione Lavoro Persona”, numero VIII, anno III (2013), p. 6.
[9]Cfr. R. SCHULMEISTER, Desconstructing the Net Generation Thesis, in “QWERTY “, 10, 1 (2015), pp. 69-103.