Un’opinione sbagliata circola soprattutto tra i più giovani, secondo la quale il web sarebbe un territorio libero dalle leggi, nel quale non valgono tutte le regole che nella nostra vita reale sono poste a tutela delle persone, della loro reputazione, della loro libertà e della loro riservatezza.
In verità il diritto ha saputo affrontare con relativa rapidità le innovazioni tecniche imponenti che si sono affermate negli ultimi tre decenni, anche con una produzione normativa specificamente destinata a regolare gran parte delle attività che possono svolgersi sul web: la prima legge significativa risale al 23 dicembre 1993, con la quale è stata introdotta la disciplina dei reati informatici, si sono succedute poi norme speciali , la normativa è stata poi riordinata nel testo unico approvato con D.L. 196 / 2003 – il c.d. codice della privacy – che disciplina la raccolta dei dati personali e ne limita la circolazione a specifici casi determinati e con modalità delineate dalla legge.
Inoltre, la giurisprudenza di merito e di legittimità si è presto confrontata con le nuove tecnologie, delineando la casistica delle condotte vietate e sanzionate: l’ interpretazione delle norme si è tenuta lontana dall’analogia – sempre vietata in materia penale – ma ha saputo equiparare di volta in volta le condotte realizzate con l’uso o l’abuso di tecnologie informatiche a quelle realizzate con altri mezzi, esempio tipico la stampa.
Soprattutto grazie all’evoluzione della giurisprudenza oggi i cittadini sono in grado di distinguere tra i comportamenti tenuti sul web quelli certamente leciti, che come tali non determinano conseguenze legali di alcun genere per chi li pone in essere, da quelli illeciti perché lesivi di beni di rango costituzionale come tali tutelati dal diritto positivo.
Purtroppo non sempre risulta sufficiente la diffusione della cultura delle norme e della loro interpretazione, e perciò residuano aree di inconsapevolezza – specie tra i più giovani – nelle quali sono sottovalutate le conseguenze dei comportamenti tenuti sul web: l’inconsapevolezza delle conseguenze dei propri comportamenti produce pericoli, e i pericoli possono a volte cagionare quei danni che la legge si prefigge di scongiurare.
E’ opportuno dunque riassumere brevemente almeno le principali fattispecie alle quali possono corrispondere comportamenti vietati, la cui messa in atto comporta la realizzazione di un reato, con le conseguenti sanzioni penali previste a carico dei responsabili.
Per la sua frequenza, viene in primo luogo in evidenza il reato di diffamazione previsto dall’articolo 595 del codice penale. È il reato di chi lede consapevolmente e volontariamente l’onore, la reputazione e la rispettabilità di persone determinate o identificabili.
L’ onore delle persone e la loro reputazione sono beni tutelati dalla nostra Costituzione: secondo gli interpreti la loro tutela dev’essere fatta rientrare nella previsione dell’art. 2, per il quale “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’ uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” .
La tutela costituzionale di questi valori giustifica ampiamente la permanenza nella nostra legislazione ordinaria di un reato che viene considerato d’ opinione: in effetti, si realizza esprimendo il proprio pensiero nei confronti di una o più persone o dei loro comportamenti, quando la manifestazione del pensiero è tale da risultare offensiva della reputazione del soggetto chiamato in causa. Il reato è aggravato quando ad una persona sono attribuiti fatti determinati, e di regola la legge non consente di giustificare le espressioni offensive con la prova dei fatti attribuiti; legge all’art. 596 c.p. , secondo il quale la prova della verità del fatto è ammessa se la persona offesa è un pubblico ufficiale e il fatto ad esso attribuito si riferisce all’esercizio delle sue funzioni, e quando per il fatto attribuito alla persona offesa è aperto o si inizia contro di essa un procedimento penale, oltre al caso in cui il querelante chieda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità del fatto ad esso attribuito.
Nel corso dei decenni, e trattando di reati commessi a mezzo stampa, la giurisprudenza ha elaborato criteri stabili per garantire l’esercizio dei diritti di cronaca e di critica, collocati nell’ambito dell’art. 51 c.p. che delinea la causa di non punibilità dell’esercizio di un diritto, allo scopo di garantire la libertà di stampa e di manifestazione del pensiero previsti dall’art. 21 della Costituzione, senza sacrificare la tutela dell’onore e della reputazione delle persone. In proposito, è importante notare che i diritti di cronaca e di critica sono più ampiamente riconosciuti quando essi si esprimono nei confronti di soggetti che per loro scelta si espongono alla attenzione e alla valutazione dei loro concittadini: vengono in primo luogo in evidenza coloro che partecipano alle competizioni politiche ed assumono cariche istituzionali, ma anche chi sceglie di esporsi alla valutazione della opinione pubblica come personaggio dello spettacolo o dello sport. La massima parte dei comuni cittadini non ha invece nessun dovere di esporsi alle critiche altrui, né di vedere i propri comportamenti oggetto dell’attenzione della cronaca: per questa ragione, la reputazione dei comuni cittadini è considerata un fatto privato, ed è tutelata più ampiamente. Così, la giurisprudenza considera lecito censurare anche aspramente le scelte di un personaggio che vive nel pubblico, come un politico, e purché la critica non si trasformi nell’ offesa gratuita su aspetti della personalità estranei alla sua attività pubblica, ma lo stesso non vale nei confronti del comune cittadino, che ha il diritto di non ricevere offese di alcun genere in relazione alla sua vita privata o professionale e alle sue scelte, quali che esse siano, che non coinvolgono in alcun modo la sfera pubblica.
Per questo le offese portate alla sua reputazione sono punibili, indipendentemente dalla verità dei fatti sui quali esse si possono riferire. E il fatto che le offese e le lesioni alla reputazione siano arrecate via web, specie attraverso i social media, o comunque su internet anziché sulla stampa periodica, non rappresenta il motivo di alcuna eccezione alle regole: la reputazione può essere lesa con questi mezzi esattamente nello stesso modo in cui può essere lesa a mezzo stampa. Anzi: proprio la diffusione potenzialmente molto ampia della comunicazione via web e sui social, e la sua permanenza in teoria infinita nel tempo, giustificano una valutazione di maggiore gravità della diffamazione realizzata con questi mezzi, sia con l’offesa diretta alle qualità personali della vittima, sia con l’attribuzione ad essa di fatti infamanti che non ha commesso, e perfino nel caso in cui li abbia realmente commessi.
Con gli stessi mezzi informatici possono essere realizzati i reati di violenza privata (art. 610 c.p.) di minacce (art. 612 c.p.) o di atti persecutori (art. 612 bis c.p. , il c.d. “ stalking”).
Il reato di violenza privata è il reato commesso da chi con violenza o minaccia costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, ed è punibile anche quando si ferma allo stato del tentativo, non riuscendo a raggiungere l’obiettivo che l’autore si prefigge. Si distingue dall’estorsione perché nella violenza privata manca il fine di profitto economico. È evidente che l’evento del reato – la costrizione delle condotte altrui, la limitazione dell’altrui libertà di scelta – può essere causato con violenze verbali o minacce realizzate attraverso i social media, o comunque con strumenti informatici. E la violenza realizzata con questi mezzi è punibile esattamente come quella attuata con altri mezzi, ed anche se si tratta di violenza puramente verbale o di minacce.
Il reato di violenza privata è tanto grave da essere punito con la reclusione fino a quattro anni, ed è perseguito d’ ufficio, vale a dire anche se manca una specifica denuncia o querela presentata dalla vittima della violenza o da chi ha subito la minaccia.
È invece punibile soltanto a querela della persona offesa il reato di minacce previsto dall’art. 612 c.p. La minaccia è la prospettazione di un danno ingiusto, ed è tanto più grave quanto più è precisato e credibile il danno che viene presentato come possibile e dipendente da una scelta dell’autore del reato.
Più grave ancora è la condotta del reato di atti persecutori, introdotto nel codice nel 2017 con l’introduzione dell’ art. 612 bis c.p. , il cosiddetto reato di “ stalking”. La pena prevista ha un minimo di sei mesi e un massimo di cinque anni. Questo reato si realizza con condotte ripetute nel tempo, con minacce o molestie tali da causare “ un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero da ingenerare un fondato timore per l’ incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. “ Anche questo reato è di regola perseguibile a querela, che dev’essere presentata entro sei mesi, salvo che sia commesso in danno di un minore o di una persona con disabilità: in questi due casi è perseguibile d’ ufficio.
Il reato di atti persecutori è stato introdotto nel codice per punire gravemente i comportamenti di chi volontariamente si prefigge di intromettersi nella vita altrui con minacce o con molestie, allo scopo di terrorizzare la vittima, oppure allo scopo di costringerla comunque ad elaborare strategie di evitamento che comportano ansie ed un impegno incompatibile con il normale andamento delle abitudini quotidiane.
Anche questo reato può essere realizzato con comunicazioni informatiche dirette alla vittima, o postate sui social ai quali la vittima può accedere.
Reato meno grave è l’accesso abusivo al sistema informatico, previsto dall’art. 615 ter c.p. , che si realizza quando un soggetto si introduce senza il consenso del titolare in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza, intendendosi per tale comportamento anche il semplice impiego di una password legittimamente conosciuta soltanto dal titolare che l’ha scelta. Il reato opportunamente si integra anche quando un soggetto “si mantiene” – per usare il termine scelto dalla legge – nel sistema informatico “ contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo “ : ciò significa che non è sufficiente avere ottenuto una tantum una password di accesso dal titolare, magari per realizzare un singolo accesso consensuale motivato da esigenze contingenti, per giustificare la continuazione degli accessi anche dopo che il consenso all’ accesso è stato revocato, per qualunque ragione.
Proseguendo nella rassegna, si deve fare un cenno al reato di violazione di corrispondenza, previsto dall’art. 616 c.p. , per ricordare che l’ intrusione nella corrispondenza altrui può essere fatta non soltanto con l’ appropriazione, o comunque con la lettura, della corrispondenza cartacea, ma anche con l’accesso abusivo alle caselle mail altrui, nel caso in cui il colpevole riesca ad impadronirsi con l’ inganno o in altro modo delle password utilizzate dal titolare della casella mail per accedervi.
Un altro reato che può essere commesso attraverso il web è quello di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, previsto dall’art. 604 bis del codice penale, secondo il quale è punito:
a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;
b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
La norma è destinata a sanzionare chi utilizza internet, e specialmente i social media, per diffondere discorsi di propaganda tendenti a suscitare odio razziale, o a istigare alla discriminazione.
I reati più gravi che possono essere commessi con il mezzo della comunicazione informatica sono l’ istigazione al suicidio prevista dall’ art. 580 c.p., e il c.d. “revenge porn”, reato quest’ ultimo introdotto nella nostra legislazione con la legge n.69 dell’ agosto 2019 che ha delineato l’art. 612 ter c.p.
L’ istigazione al suicidio si realizza con qualunque comportamento idoneo ad indurre la vittima a quella scelta estrema: la legge punisce con la pena da cinque a dodici anni di reclusione la condotta di chi “determina al suicidio” la vittima, “ ovvero ne agevola in qualunque modo l’esecuzione “ , se il suicidio avviene, e con la pena fino a cinque anni se il suicidio non avviene, ma dal tentativo deriva una lesione gravissima. La prima ipotesi rimanda al caso, invero raro ma non impossibile, in cui la scelta del suicidio non sia maturata nella mente del soggetto che realizza il gesto anticonservativo, ma sia stata invece determinata dalla volontà altrui, con attività di persuasione oppure con comportamenti vessatori tanto violenti e ripetuti da risultare per la vittima insopportabili, al punto di indurla a scegliere di togliersi la vita allo scopo di sfuggire con la scelta estrema alle persecuzioni subite.
Questa norma è stata invocata in un’indagine recente, che non ha però portato al rinvio a giudizio degli autori, in cui il Pubblico Ministero ha cercato di conoscere e ricostruire la serie causale delle vessazioni con le quali una giovane si è tolta la vita, dopo aver visto la sua reputazione rovinata dalla pubblicazione e dalla diffusione sui social di filmati che la ritraevano in atteggiamenti di intimità con l’ex fidanzato. Costui è stato indagato per il reato di istigazione al suicidio, ma la pubblica accusa non è poi riuscita a provare che l’iniziativa di divulgare il filmato fosse consapevolmente diretta a determinare il suicidio della vittima.
Proprio in conseguenza della mancata soluzione di quel caso recente, il legislatore ha preso atto di una lacuna nel sistema normativo, che ha inteso colmare con l’introduzione nel codice dell’ art. 612 ter c.p., con il quale espressamente si prevede la punizione di chi pubblica senza il consenso della persona rappresentata immagini – fotografie o filmati anche autoprodotti, scatti consensuali o carpiti con l’ inganno – che ritraggono persone impegnate in attività sessuali, o comunque in pose esplicite, diffusi allo scopo di punire, umiliare o controllare qualcuno utilizzando immagini di cui l’autore del reato è entrato in qualunque modo in possesso. La pena prevista è di un anno di reclusione nel minimo, e di sei anni nel massimo: come si vede, sono state scelte pene gravi proprio per la particolare pericolosità di condotte di questo genere, e per la gravità estrema dei danni che possono essere determinati dalla diffusione incontrollata di immagini o filmati di quel tipo, tali da causare a tempo indeterminato la lesione della reputazione e della privacy di persone che sono state ritratte con l’ inganno, o anche con il loro iniziale consenso, prestato però ingenuamente nella convinzione errata che quelle fotografie o qui video non sarebbero mai stati divulgati, e sarebbero rimasti nell’esclusiva disponibilità di chi le ha scattate o ha realizzato i filmati, o del loro primo destinatario.
La scelta drastica del legislatore del 2019 per punire il c.d. “revenge porn” rimanda alla riflessione su una elementare verità troppo spesso ignorata o sottovalutata, specialmente dai giovanissimi: tutte le immagini che vengono introdotte a qualunque scopo e in qualunque modo nel web sono destinate a rimanerci, e la loro circolazione abusiva non può essere realmente controllata, neppure con divieti espressamente posti dalla autorità giudiziaria in accoglimento delle richieste in tal senso delle vittime.
Proprio la gravità nel tempo delle conseguenze delle pubblicazioni via web giustifica la severità adottata dal legislatore nella scelta delle pene per quel reato, e induce a riflettere sulla indispensabile prudenza, per chiunque, nel pubblicare o comunicare immagini intime.
Peraltro, un caso recentissimo accaduto a Torino insegna che comportamenti gravemente dannosi possono essere realizzati via web anche al di fuori di una diretta volontà di colpire la reputazione della vittima: è sufficiente che il primo destinatario delle immagini le divulghi per leggerezza a qualcun altro, per innescare meccanismi infernali che possono travolgere la serenità della vita altrui. Il caso è quello di una giovane insegnante di una scuola materna, che è stata costretta dalla direttrice della sua scuola a dare le dimissioni dopo che era stata diffusa la notizia dell’esistenza di alcune fotografie e di un filmato che ritraevano nuda la ragazza; un filmato che lei stessa aveva inviato al suo ex fidanzato, e che costui aveva inoltrato ad un amico; da questi era pervenuto alla moglie, che lo aveva poi mostrato alla direttrice della scuola che aveva poi costretto alle dimissioni la giovane insegnante. Oggi tutti i protagonisti dell’episodio sono indagati a vario titolo per diffamazione, per violenza privata e per la diffusione abusiva di materiale informatico senza il consenso della persona interessata.
Più in generale, e al di fuori dei due casi particolarmente gravi che abbiamo brevemente descritto, centrati sulla diffusione di immagini intime, è opportuno ricordare che in ogni caso sono vietate la pubblicazione e la diffusione sul web di immagini che ritraggono persone senza il loro consenso, e che la loro pubblicazione può causare danni risarcibili in sede civile, anche quando il fatto non è specificamente previsto come illecito penale.
Dobbiamo ricordare che un uso responsabile del web, del quale sembra opportuno soprattutto informare i nostri giovani, comporta la consapevolezza che la scelta personale di postare proprie immagini – qualunque propria immagine – manifesta un implicito consenso alla loro diffusione, che può essere incontrollata nel “ world wide web”, e può protrarsi per un tempo indeterminato. La legge può sanzionare i comportamenti illeciti e aiutarci ad adottare quelli leciti, ma non può sostituire la capacità della coscienza individuale e collettiva di comprendere i fatti e le conseguenze delle scelte che vengono fatte nell’ uso dell’informatica e del web esattamente come nella vita reale nella quale ci muoviamo ogni giorno.