Ci sono tantissime ragioni per scrivere una poesia, cioè per usare le parole non solo per il loro senso ma per il loro suono, unendo il ritmo musicale a quello logico; una di queste è la voglia di giocare, scegliendosi una regola (ogni gioco che si rispetti ha le sue regole) per poi divertirsi a inventare, a scoprire dove si può andare a finire seguendo desideri o fantasie.
Tra le forme della poesia per gioco c’è il limerick “inventato” a metà dell’Ottocento da un simpaticissimo inglese, Edward Lear, viaggiatore (anche in Italia), pittore affermato e insegnante di disegno della regina Vittoria, autore delle 109 brevi poesie che sono diventate il modello di questo minuscolo genere letterario. Lui in realtà le aveva chiamate nonsense, perchè vi si descrivono situazioni che non sempre obbediscono alla logica e in cui c’è sorriso divertito e sorpresa per inconsueti risvolti del reale.
Gli studiosi discutono sul perché siano state poi indicate con il nome attuale e le ipotesi sono diverse; quel che è certo è che Limerick esiste, è una città irlandese, ed è importante che questa forma poetica abbia il nome di un luogo.
La prima regola infatti per comporre un limerick è scegliere un luogo preciso dove collocare la vicenda, piccola ed essenziale perché il componimento è brevissimo: cinque versi con alternanza di versi piani (con l’accento sulla penultima sillaba)e tronchi (con l’accento sull’ultima) più raramente sdruccioli (con l’accento sulla terzultima). La lunghezza di ciascun verso non è importante, ma quelli brevi danno un ritmo più piacevole e incalzante.
Nel primo verso, come dicevamo, deve assolutamente apparire un nome geografico, ripetuto anche a conclusione dell’ultimo. Lo schema quindi è AABBA, in cui il primo e l’ultimo si concludono con la stessa parola. Sempre nel primo verso deve essere introdotto il protagonista della minuscola ma compiuta avventura che si vuol raccontare, e va indicato con l’età, o con il sesso, o con una connotazione sociale o di mestiere, rarissimamente con un nome, soprattutto se è un nome famoso che ci porti nel campo della storia o della cronaca invece che in quello della fantasia. L’ultimo verso deve ripetere il nome geografico iniziale e indicare di nuovo il protagonista con un epiteto, che riassuma quel che ha fatto o gli è capitato, condensando così quanto si è svolto nei tre versi intermedi.
E in questi tre versi può accadere di tutto: per innescare la vicenda possono servire dei puri rimandi sonori o il senso forte di una parola o associazioni a corto circuito, si può parlare delle cose più svariate e improbabili e delle loro conseguenze altrettanto svariate e improbabili, purchè collegate alle premesse secondo una logica interna che nel testo deve funzionare con gran precisione anche se non è detto che funzioni altrove, come accade nelle fiabe o nei sogni.
Ma vediamo in pratica come funzionano le regole in due limerick d’autore.
Il primo è del padre del genere, Edward Lear, da gustare nell’originale per chi sa l’inglese, ma anche tradotto per tutti gli altri.
There was an Old Man of Berlin,
Whose form was uncommonly thin;
Till he once, by mistake,
Was mixed up in a cake,
So they baked that Old Man of Berlin.
C’era un vecchietto di Berlino
incredibilmente magrolino;
fin che un giorno per disattenzione
fu impastato in un panettone
così infornarono il vecchietto di Berlino.
Come vedete la caratteristica distintiva del protagonista è scelta per far rima con Berlin/Berlino, ma a quel punto diventa essenziale quanto sottile ed evanescente lui possa essere. Al punto da confondersi nell’impasto di una torta? Perché no? E se finisco mescolato agli ingredienti di un dolce è logico che sia infornato con uova zucchero e farina? Perché no?
Viste le premesse le conseguenze si tengono nella breve e intensa vicenda berlinese dell’Old Man.
Il secondo limerick è di Gianni Rodari, che del gioco con le parole, dello slalom tra realtà e fantasia ha fatto la cifra di poesie e racconti.
Un signore molto piccolo a Como
una volta salì in cima al Duomo
e quando fu in cima
era alto come prima
quel signore micropiccolo di Como.
Qui la caratteristica tipica del protagonista è enunciata subito e la rima con Como serve non a dire come è, ma quel che fa. Possiamo pensare che ci tenga a salire in cima al Duomo per guardar finalmente dall’alto? Perché no? Ma la piccola impresa non riesce e Rodari condensa tutto lo scacco nell’epiteto con cui lo definisce, inventandosi con grande efficacia un aggettivo micropiccolo.
Allora coraggio: scelta di un luogo, scelta di un protagonista, via con la fantasia dietro al suono della rima, azione, ritorno al luogo iniziale ma con tutti i cambiamenti intercorsi, rispetto delle regole formali, nessun rispetto per la logica quotidiana, e, soprattutto, divertirsi per divertire.